sabato 9 maggio 2009

Ritorno a Urbino

Ogni volta che si trovava a passare accanto al torrione di San Polo, Luca non poteva fare a meno di guardare oltre le mura, verso sud, sorvolando con lo sguardo la schiera di valli e colline che si disponeva crescendo fino ai più alti crinali dell’Appennino.
E ogni volta ripensava a tutti i paesaggi del mondo che aveva già visto nella sua pur non lunghissima vita. Anche provando a rivederli tutti assieme non ce n’era uno che gli fosse mai sembrato degno di quello. Non si capacitava del fatto che tutti i suoi viaggi fossero stati inutili, nel cercare qualcosa di più bello. Eppure non era certo di sentirsi felice di avere ogni giorno una simile fortuna: era condannato a restare deluso da qualsiasi viaggio avrebbe potuto intraprendere.
“Meglio delusi per quindici giorni e felici il resto dell’anno che viceversa: ogni volta che torno sono più consapevole della mia fortuna”.
Quando poi gli capitavano mattine come quella, con la nebbia lucida e bianca che adagiandosi al fondo delle valli ne distingueva il profilo una ad una nel modo in cui Paolo Uccello dosava i colori tra i cavalli nel Miracolo dell’ostia, forse illuminato dalla stessa visione cinque secoli prima, avrebbe voluto restarsene lì per sempre.
Invece doveva andare.
Si congedò dallo spettacolo continuando a goderselo fino alla coda dell'occhio per poi proseguire il tragitto verso Piazza del Mercatale: la gita scolastica che lo aspettava sarebbe arrivata a minuti e voleva essere puntuale.
In pochi passi fu sotto la volta che passava sotto le mura. Nel punto più oscuro della parete si apriva una grotta buia dove da ragazzini entrava chi veniva sottoposto alla prova del coraggio. Si cresce e si invecchia lasciando tracce in giro dappertutto, come bava di lumaca. Passò avanti a quei vaghi ricordi e uscì nuovamente al sole, costeggiando le mura per raggiungere poi il luogo dell’appuntamento.
“Le nove e non si vedono. Se fanno tardi dovremo farla tutta di corsa. Leggo “Vivere con lentezza” e sono abbastanza nervoso. Certo che anch’io, comunque, comprare un libro con quel titolo… scritto da un professore universitario: fa bene lui, arriva alle nove, fa lezione, riceve uno studente se va bene, poi va in piazza, tavolo del bar, giornale, aperitivo e appunti sul moleskine per il nuovo libro “Dominare l’ansia dell’happy hour”. E tu coglione, che alle otto timbri il cartellino, non esci fino alle due per poi mangiare alle tre, che alle tre e mezza accompagni un figlio in piscina e l’altro a calcio (guai, senza lo sport, e poi lo fanno tutti, ma i compiti guai ancora di più e come fai a non aiutarli?) fai la spesa e tutte le altre commissioni mentre la moglie fa il corso di inglese, ceni, poi una partita a tennis perché a quarantanni non ti rassegni ad aspettarlo tu, l’infarto, “se deve venire decido io”, ma tutto questo solo se non devi fare una relazione che in ufficio è impossibile con quel casino da fare e poi sul comodino “Vivere con lentezza”. Così vai a dormire incazzato e la domenica pure un gruppo di turisti perché hai ancora il patentino e cento euro fanno sempre comodo (chi te lo fa fare, oggi dovevi vivere la lentezza, bravo tu a seimila euro al mese, bravo bravo bravo).
Almeno potevo pulirmi meglio le scarpe, se lo sapevo che tardavano, ci ho fatto il guardalinee ieri con queste scarpe perché i genitori vanno coinvolti nello sport dei figli, lo dice la federazione perché altrimenti non lo fa nessuno e come fai a dir di no? Il padre che rifiuta la bandierina davanti a tutti con la scusa delle scarpe buone, esplicito diniego alla virilità con insinuazioni relative e conseguenti sospetti sulla paternità del ragazzo può generare un trauma infantile irreversibile, non sia mai. Ecco chi sono i guardalinee in serie A, ci si chiede sempre chi glielo fa fare, devono avere un figlio che gioca, anche in serie a, magari un figlio segreto, sennò non si spiega. O magari è l’arbitro che è loro figlio. Ecco. I guardalinee sono il babbo e la mamma dell'arbitro.
Eccoli.
Bel pullman, si apre con un bel suono frusciante, la prima a scendere è l’insegnante…
Oddio. Si sente mancare il fiato, deve dominarsi ma non ci riesce, sente avvamparsi di rossore e adesso, proprio davanti a lei non vorrebbe mai. Non sa cosa dire allora è lei che parla:
- Ma guarda chi c’è! Ci avrei scommesso che ti avrei incontrato, ma mica subito! – il suo sorriso spudorato è sempre quello, ridente anche quando il resto del viso è serio, ed è bella come un tempo. Solida e dorata. E come allora non si scompone per nulla. Fanno così le donne, quando non amano. Gli si avvicina, lo bacia sulle guance. Lui ancora non sa cosa dire, vorrebbe dire qualcosa di intelligente ma che si può dire se non:
- Bea… -
Si squadrarono senza parlare per qualche interminabile secondo, poi Luca parlò: - quanti anni sono? Aspetta, esattamente ventisei. Ma mi avevano detto una scuola di Rovigo, mica di Ferrara, sennò avrei davvero pensato a te.
- Infatti insegno a Ferrara, carino, come vedi. Poi mi dirai chi ti ha dato l’informazione. – disse, ma intanto guardava i ragazzi per poi alzare la voce - Bene, oggi staremo insieme tutta la giornata ma non devi mica parlare solo con me. Ci sono qui i nostri baldi giovani della Scuola Media “De Chirico”. Ragazzi, salutate Luca che oggi ci farà da Cicerone - e quelli obbedirono in coro.
Quanto parlava. Aveva sempre parlato tanto, l’aveva stordito, in quel mese che avevano passato assieme. Ma non solo con le parole. Luca non aveva più amato una donna così come aveva amato lei. Non era un fisionomista ma quelle labbra carnose, quegli occhi sempre più sorridenti della bocca erano rimasti sempre nella sua mente come la promessa della felicità.
Mai mantenuta.
Sarebbe stata una giornata dura. Si sentiva quasi svenire e pensava di non essere a posto, quelle scarpe sporche, e poi, se solo l’avesse saputo, avrebbe dato il Drakkar che usava in quegli anni, che ora non esisteva più ma di cui lui aveva ancora una miracolosa bottiglia che lasciava alle grandi occasioni e questa dio mio se lo era. Era la più grande di tutte. Ma comunque anche allora il Drakkar non era servito.
Con quello che gli consentivano le gambe, accompagnò la comitiva verso l’ingresso della città, come se andasse verso casa. Poi si ricordò che da quel punto avrebbe dovuto introdurre la visita, mica così senza neanche presentarsi. Insomma, dai, facciamogliela vedere. Ebbe uno scatto di vita e si ridestò fermandosi:
- Ecco, ragazzi, fermiamoci qua. Da questo punto potete ben osservare la facciata della città. Da qui voi vedete gli occhi di Urbino, e si sa, gli occhi sono lo specchio dell’anima. E siccome Urbino è stata definita “città dell’anima”, è importantissimo guardarla dritta negli occhi. Quante volte avete visto sguardi inespressivi, occhi spenti, scoprendo poi che erano gli sguardi di persone aride, che nulla vi avrebbero dato e da cui né voi né il mondo avrebbero mai ricevuto nulla? C’è gente che ha occhi come vampiri, buchi neri che succhiano la vita senza dare niente in cambio. Gli occhi di Urbino invece sono luminosi, danno luce piuttosto che rubarla. Ma voi dovete essere bravi a incontrarli, quegli occhi, perché sono nascosti, sono come quelli di una ragazzina che vi sorride da un vicolo e vi sfugge dentro a un portone per salire le scale di una mansarda.
Sono così, a Urbino, gli sguardi. Sono come gli occhi delle studentesse.
Non sai mai dare gli anni a questa città, ne ha cinquecento o ventidue? Gli studenti non invecchiano mai. Hanno sempre vent’anni, appena crescono scompaiono e lasciano il posto ad altri ventenni, e noi li ricordiamo sempre così.
Cercava di non guardarla, mentre parlava. Poi si ricordò che si stava rivolgendo a dei ragazzini e disse:
- Da qui vedete la facciata del Palazzo Ducale, costruito nel XV secolo da Luciano Laurana, architetto dalmata che realizzò il sogno e il progetto di Federico da Montefeltro, uno dei più grandi principi e condottieri del Rinascimento, che però volle restare nella storia della cultura piuttosto che in quella militare. Più per l’amore che per l’odio, più per aver creato che per aver distrutto. Forse voleva farsi perdonare le cannonate con cui rovinava le splendide città fortificate del suo tempo. Per questo vorrei che ricordiate questa città come una città che vi riama, se voi l’amate. Mica succede tanto spesso, in amore anzi è cosa rara. Guardate questa facciata dei torricini: è in ombra, fredda come una bella donna senza sentimento – parlava a quei ragazzini a sguardo basso ma pensava a lei, e faceva fatica a usare le parole giuste - poi il giorno avanza, la luce sale, il sole gira, il vostro amore cresce e a un tratto la vedrete arrossire di tenerezza e di vergogna. Non a caso il rosso dei suoi mattoni si chiama cotto. Cotto come dite voi quando siete innamorati, è vero ragazzi? C’è nessuno che è cotto, tra di voi?
I ragazzini risero e guardarono tutti uno di loro gridando “Giovanni, Giovanni!!” e il poverino diventò tutto rosso.
- Ecco, avete visto? Giovanni è diventato rosso, forse perché è cotto davvero e non vogliamo sapere di chi, vero? Lasciamolo in pace. Scusa, Giovanni, abbi pazienza. Dicevo che... su, silenzio per favore, dicevo che poi la sera, quando torneremo in questa piazza alla fine del giro e visto che oggi è una bella giornata serena sarà così, forse la troveremo finalmente rossa, cotta di passione, di quell’amore caldo e forte che matura e poi dura per sempre, fino al tramonto.
Quello che farete oggi è un viaggio breve e lunghissimo al tempo stesso. In un giorno solo tornerete indietro di cinque secoli –
Girò le spalle e si avviò verso l’ingresso alla città, pensando “e io di vent’anni” abbandonandosi per un attimo all’ansia di averla vicina.
- Adesso entreremo in città attraverso una delle porte del tempo, la Porta di Valbona. Poi saliremo subito a sinistra per via Piola di San Giovanni.
- Eros e Thanatos – disse Bea raggiungendolo. – bella questa cosa del cotto, non me l’avevi mai raccontata. E sì che me ne avevi raccontate di storie.
- Assisi – disse Luca sorridendo – ti ho portato su un monte qua dietro e tu vedesti la cima di un campanile. "Cos'è quello?" Mi dicesti. “San Francesco” ti dissi per dire la chiesa, e tu ”che San Francesco?” di Assisi, no? “Ah quello è Assisi, ma allora è vicino a Urbino". Anche tu ci avevi portato in Umbria, ma almeno a modo tuo.

Salirono quelle piole senza mai voltarsi. Lui sapeva dello spettacolo che sta crescendo alle loro spalle, ma si guardò bene anche solo dal dare un’occhiata, perché quella salita era il preludio del colpo di scena, l’apertura del sipario, come la scalinata di Filadelfia di Rocky o quella di Montmartre. Arrivati in cima infatti, Luca si aprì in un sorriso senza parole, e quando tutti furono arrivati, si limitò a guardare finalmente all’indietro.
Era in quei momenti che si sentiva completamente urbinate, orgoglioso di una bellezza che lo coinvolgeva fino a far sentire più bello anche lui. E’ inevitabile, vivere nella bellezza è come stare in acqua, non puoi non bagnarti.
I Torricini si mostravano come facevano sempre, da quel punto.
- Li vedi? Sono come te, ridenti e fuggitivi - le disse.
- Sfuggenti, direi, quasi sdegnosi.
- Antipatici, vorresti dire.
- No, voglio dire nobili, alteri. Consci della loro impossibilità a concedersi subito, anzi sapendo che non lo faranno mai.
- Sembri conoscere questi sentimenti.
- Forse li conosci meglio tu. Io, per parte mia, ancora mi devo conoscere.
- Non ci si conosce mai abbastanza, se non ci si vede da fuori.
- E tu la vedi da fuori, la tua Urbino?
- Ci provo, pensandola così ambigua, una donna col nome da uomo, androgina. Urbs bina, è il suo nome antico.
- Doppia, misteriosa, quindi.
- Sempre. Non sai mai qual'è la parte che stai osservando.
- E chi la studia la comprende meglio?
- Non mi sembra. Quando sento gli storici, gli esperti, mi sembra di sentire dei cardiologi che parla d'amore. Hanno talmente studiato il dettaglio che non vedono più l'assieme.
- Maestra, mi scappa la pipì!
Luca si ridestò da quel sogno che stava dilatando il tempo. Lei aveva quella capacità di far uscire ogni cosa che aveva dentro, era come una psicanalisi, parlare con lei. Mai nessuna aveva saputo fare niente di simile.
Con lei non avrebbe parlato della spesa.
E quando l'avessero fatto, non sarebbe stata una spesa inutile.
Luca riprese il controllo della sua professionalità:
- Ragazzi, adesso per favore. Vi prego di accostarvi in silenzio. Ecco. Perché ci sono cose che vanno viste in silenzio. Si chiamano stanze dai muri parlanti. Sì, ci parlano, ma la loro voce è flebilissima, bassissima. Non ce ne sono molte, nel mondo, ma sono quasi tutte in italia. I muri parlanti, forse ne avete visti altri. La cappella degli Scrovegni a Padova, La Basilica di Assisi, la cappella sistina al Vaticano.
- Assisi! – alzò la mano il piccolo Giovanni con entusiasmo - Io ci sono stato… - abbassò la voce quasi vergognandosi - ma non ho sentito niente.
- Perché non c’era il silenzio, o perché non stavi ad ascoltare. Adesso proviamoci qua. Questa è la Chiesa di San Giovanni, con i muri parlanti dipinti dai fratelli Jacopo e Lorenzo Salimbeni. E’ il loro capolavoro. Ci hanno lavorato dieci anni, vediamo se ne è valsa la pena.
I ragazzi fecero silenzio e si misero in fila davanti alla porticina d’ingresso. Bea si accostò a Luca:
- I muri parlanti, ma questa dove l’hai sentita?
- E’ un buon trucco. Ma non ho ancora imparato a farli parlare davvero.
- Ci penso io.
- A far cosa?
- Entriamo e poi vediamo.
Bea pagò il biglietto cumulativo ed entrò, avanti a tutti. Nell’invitare i ragazzi ad entrare fece un gesto morbido con la mano che per Luca fu come una pugnalata: era lo stesso gesto con cui, sporgendosi dalla finestra, lo invitava a salire da lei tanti anni prima. I ragazzi entravano mentre lui lottava contro i ricordi e l’emozione. Se sveniva adesso avrebbero pensato a una sindrome di Stendhal, ma il pathos era in ogni caso quello giusto per comunicare emozioni. Alla fine entrò anche lui dopo aver abbassato la testa.
Attese un minuto buono e studiato, prima di sussurrare:
- Questa storia ha seicento anni. Non avevano ancora scoperto l’America e siamo ancora nel Medioevo, ma è con artisti come i Salimbeni che il mondo si illuminava verso il Rinascimento. La storia che vedete è quella di San Giovanni Battista… Luca proseguì raccontando ogni riquadro e spiegnado la tecnica dell’affresco a quei ragazzini a testa in su. Quando finì, invitò i ragazzi al silenzio, che ascoltassero quel che i personaggi alle pareti avevano da dire loro.
- Ecco, sentite? Fece Bea, l’ho sentita. E’ lei! – E puntò l’indice verso la disperazione di Maddalena ai piedi del crocefisso. Oh poverina! Poverina! – Si avvicinò all’altare che sottostava al grande affresco di fondo come fosse in trans mentre Luca, superata la sorpresa, era sbalordito e divertito (“meno male che non c’è gente”, pensava). Bea si rivolse a quella donna in rosso quasi chiedendo di essere ricambiata - Quanto piange, sento il suo lamento per il perduto amore, oh! Lei lo amava, capite? Non è il Dio fatto uomo, è lui, è Gesù, il suo uomo, il suo amore, il suo innamorato. Non è solo dolore, è rabbia, rabbia verso il mondo, verso anche Dio e quel suo cavolo di sacre scritture che il suo amore ha dovuto rispettare mentre avrebbe voluto restare con lei, magari vivendo da semplice uomo. Verso anche se stessa che non aveva saputo amarlo fino a farlo desistere da quel volontario martirio della croce. Piangi, piangi e nessuno ti ascolta, ma io ti sento! – Abbassò la testa e pianse davvero, tra l’imbarazzo di tutti. Luca le si avvicinò e l’abbracciò
- Stai bene?
Bea gli strizzò l’occhio e sorrise, mentre nella chiesa er acalato un silenzio diverso da prima. L’eco delle sue parole vibrava nei cuori dei ragazzi che più che cercare di ascoltare si guardavano attorno improvvisamente assediati da quelle figure incombenti:
- Maestra, andiamo via, ho paura! Fece Marianna, e un brusio si diffuse tra i ragazzini
- Sì, sì, andiamo via – fecero in coro gli altri avvicinnadosi all’uscita
- Hai visto come hanno parlato bene, questi muri’
- Tu sei matta. Mica li volevo terrorizzare così, mica siamo a Gardaland, è una cosa seria. Se tornano traumatizzati io non c’entro niente, sia chiaro.
Una volta all'aperto, fortunatamente tornò la calma. I ragazzi si disposero a salire verso la Fortezza Albornoz, dove Luca e Bea ritrovarono la loro panchina affacciata sulla città.

Luca aveva ripreso una certa sicurezza e questa volta voleva dirle tutto quello che non aveva avuto il coraggio di dire allora. E lo fa fingendo di scherzare, come faceva sempre con le ragazze. Lo scherzo è sempre una porta aperta per scappare.
- Certo che adesso possiamo ragionare da adulti. In fondo, anche se non eri innamorata, potevi anche darmela, che ti costava? Ti ho scarrozzata con la moto per un mese in giro per mezza provincia, ho litigato per causa tua con quella ragazza che poi sarebbe stata mia moglie e che in cuor suo ancora oggi ha nel cuore l’idea che io sia tornato da lei solo dopo che tu te n’eri andata via. Non è bello sapere o pensare di essere un ripiego. Ma tu, belle dame sans merci, niente.
- Fai presto a dire, tu. Qua siete abituati a saltare addosso alle studentesse o alle turiste. Immagino che il corteggiamento vada in proporzione al tempo disponibile: con le studentesse avete tre o quattro anni per cui potete anche essere romantici, ma con le turiste da mordi e fuggi immagino ci siano strategie d’assalto tipo teste di cuoio. Io in fondo ero una via di mezzo, corso estivo, un mesetto a disposizione, e facevi in tempo a far l’innamorato.
- Ma cosa dici? Vuoi farmi male anche oggi? Non sai quante volte ho pianto ogni volta che ti ho pensato, e solo evitando di farlo ho smesso, non certo perché il tempo abbia curato la ferita. Con te ho capito che la vita non mi avrebbe dato tutto quello che volevo, ero stato un bambino viziato e non ci avevo mai sbattuto il muso, sulle delusioni. Tu sei stata la prima, e purtroppo non l’ultima e dopo di te la mia vita non è stata più la stessa, sei stata l’atterraggio duro dal volo nelle illusioni. Senza paracadute. E’ vero che ho dimenticato anche il nome di quelle che ho portato a letto, non mi ricordo quasi più niente di loro. Ricordo una delle ultime prima di sposarmi, e non era neanche male: mentre ci facevo l’amore mi sono stancato di quel movimento meccanico di su e giù su e giù e non vedevo l’ora di smettere, avrei voluto scappare e pensavo che davvero non ne valesse la pena perché alla fine sono tutte uguali. Voglio dire, per me poteva anche finire tutto nel momento in cui una ragazza mi diceva di sì e si concedeva. Ecco perché ho pensato a questa fissazione per te. Perché con te mi è andata male. Mica perché ero un tombeur de femmes, ma perché quel tuo cercarmi continuamente mi aveva illuso e spiazzato. Puoi anche non credermi, ma io ero innamorato pazzo di te… Ma non preoccuparti, non ti dirò che lo sono ancora. Siamo seri, anche perché da quando mi sono sposato non mi sono più permesso un tradimento. Forse anche per il motivo che ho detto.
- E va bene, in tema di confessioni posso dirti che sono stata un po’ stronza con te, avevo visto che eri perso per me… - si mette a ridere – in effetti adesso magari te la darei, ma allora ero quasi vergine e mi ero appena lasciata col moroso, avevo voglia solo di ridere e tu mi facevi ridere tanto. In fondo avresti dovuto essere orgoglioso di questo: sapevi accontentare una donna.
- Di questo sono sicuro. Fuggivi da tutti, sotto la tua finestra ogni tanto c’era qualcuno che ti chiamava e tu niente, solo con me e la mia moto volevi scappare via. – si ferma un attimo a pensare, poi riprende – Quasi vergine? Ma che significa “quasi”, o si è vergini o non lo si è, è come nel calcio, mica si può dire “quasi gol”, il pallone o è entrato o non è entrato. E tu con me vincevi già sei a zero, che ti costava farmi fare un golletto?
- Eh già, ma poi mi avresti dimenticata come tutte le altre, invece così sono rimasta per sempre nel tuo cuore. In fondo ho fatto per te quello che vorrebbe fare proprio una donna innamorata. Far sì che il proprio amato l’ami per sempre e proprio questo ho fatto per te. Quello che nessun’altra ti ha fatto. Dovresti ringraziarmi, per questo. E’ curioso no?
- Il guaio è che ti compiaci pure, del ragionamento. Adesso vedo cos’è quel sorriso, è lo stesso sorriso che hai sempre avuto, le guance arrivano quasi a chiuderti gli occhi. Ma adesso capisco che non è il dolce sguardo della bontà o dell’amicizia e men che meno dell’amore, non mi illudo più di certo. E’ lo sguardo di un serpente, animale dal sangue freddo. E il sangue dove va e da dove viene se non dal cuore? Hai mai davvero amato nessuno?
Luca è riuscito a spegnere quel sorriso con quella domanda cattiva che gli era scappata.
- Perché ti sei fatto così amaro? Non vuoi perdonarmi di non essermi innamorata di te? Amor che a nullo amato amar perdona? Che colpa ne avevo, avevamo vent’anni e a quell’età si fa tutto meno che pensare, si fa tutto di corsa, sei sulla cresta della vita e pensi solo a prendere il vento e il sole fin che ce n’è. Non credo che neanche tu fossi tanto altruista e generoso. Tradivi la tua ragazza ma l’hai sposata, spero che l’amassi e che l’ami ancora ma questo non ti impediva di tradirla ad ogni estate. Mi rimproveri di non avertela data ma dici di averle dimenticate tutte: sei tu che mi offendi, in questo modo affermi che vorresti avermi dimenticata. Si esiste finché qualcuno ci pensa e tu mi avresti ammazzata. – adesso Adele abbassa la voce, rallenta le parole e abbassa lo sguardo - Forse sarebbe stato meglio davvero.. vorrei tornare indietro ma non si può. E’ una banalità eppure tu sembri non saperlo. Magari ci saremmo sposati e avresti scoperto il rimpianto di averlo fatto. E’vero, lo vuoi sapere? Non credo di avere mai amato davvero nessuno, almeno per lungo tempo. Non so se per colpa mia o degli uomini sbagliati che ho incontrato o se è perché non so amare per sempre e basta. Ma tanto la vita non può essere perfetta, non ha senso, se fosse perfetta sarebbe eterna. Invece si muore tutti e comunque. Dunque non ti illudere, non sarebbe stato mai un amore perfetto, assoluto. Tutto l’assoluto di questo mondo se lo porta via la morte con una risata. Magari il nostro amore lo conserviamo per un altro mondo, dove c’è l’eternità, dove c’è l’infinito. Ecco, l’infinito può contenere questo amore senza limite. Come diceva Sant’Agostino? “La misura dell’amore è amare senza misura”. Hai visto, mi hai capita bene, sei contento? Dovresti essere contento di aver finalmente una prospettiva. Ma basta, alziamoci che roviniamo tutto.
- Aspetta, non ti arrabbiare. In effetti anch’io ho pensato che in fondo mi hai fatto del bene. Ma lo sai che quando scrivo una poesia mi basta pensare a te per trovare l’ispirazione? Molti dicono che non si sa cosa sia. In realtà è semplicemente il trovare le parole giuste per esprimere le proprie emozioni. E se ti penso, le parole mi vengono da sole. Soffro, la piaga si riapre ma funziona Solo che ne sarebbe valsa la pena se fossi stato un grande poeta. Forse un giorno le pubblicherò e scoprirò di esserlo. Invece stanno lì, ma mi piace ogni tanto rileggerle. Ma tanto con le poesie non si fanno soldi.
- Carmina non dant panem
- Eh già, ma io non lo farei per i soldi. Pensavo che tu, passando in una libreria ti ci saresti imbattuta per caso… e così via, insomma. Il lettore, a volte è un’astrazione e a volte ha un nome e un cognome e non lo sa nessuno.
- Allora aspetto il tuo libro. Chissà cosa mi potrà succedere.
- Va bene, prendimi in giro. Anche la ma moglie di Ungaretti faceva così, poi lui è diventato famoso e l’ha lasciata per una di vent’anni
- Che aveva sempre creduto in lui?
- No, che di poesia non sapeva un cazzo, un’ignorante totale. Ma è stata una buona scusa per lasciare la moglie per una ragazzina.
- Io invece sono più vecchia di tua moglie.
- Anche io non sono Ungaretti, non sarebbe solo il Nobel a distinguerci.
- Basta! – si alzò in piedi e si guardò in giro per radunare la scolaresca - Ragazzi, forza, abbiamo ancora tanto da vedere.

(continua...)