sabato 14 novembre 2009

martedì 10 novembre 2009

Gradinata Nord

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“Gol” hai gridato
fissando il campione
sfuggendo il mio sguardo
e la tua adolescenza
che se ne va via
senza di noi.
Ti accompagnerò
per un giorno ancora
finché scoprirai
che non servo più
e poi per sempre
scomodo estraneo
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domenica 20 settembre 2009

A un giocatore di pallone nel giorno dell’addio

.
.

C’erne tanti spettatori
tutti dmennica a guardè
la partita pr’arcordè
ma l’amic Paolo Sartori

C’era tutt le autorità
E anca un gran presentator
Mo la squadra in verità
En faceva tant onor

E sicom dop diec’ minut
già tre gol avem chiapat
quei del pubblic han urlat
“fat entrè ma chel canut”!

Chel porett (è da non creda)
Per entrè dentra tel camp
S’è stirat e ha pres un cramp
E’ arvoltat e argit a seda

Vleva fè el canto del cigno
E portè a pari l’ateneo
Mo per vincia ch’el trofeo
En li fa manca Mourinho

Quarant’ann de versament
Ma un minut de cla partita
C’ha spiegat che la su vita
L’ha passata a non fe gnent!

Caro Gigi abbiam scherzato
Su mangiam le pastarelle
E brindiamo al pensionato:
Un de men dla cigielle!

domenica 14 giugno 2009

L'ultimo Bramante

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Uscirono dal Teatro che era mezzanotte. La corrente che veniva dalla piazza non li fece rabbrividire: l’inverno stava finendo e non era necessario rifugiarsi sotto il Loggiato. Si stava bene fuori, passando sotto la grande abside del Duomo, vicino al muro delle muffe verdi, scolature di vecchie acque sante, che d’inverno raggelano e a primavera risvegliano.
Paolo era desolato:
- Madonna... - e sbadigliò, reprimendo anche una plateale stirata di braccia che limitò ad uno schiudere d’ali - Fortuna che l’aria ci sveglia!
- Davvero, ‘sti russi son pesanti, anche se non si può dire - fece Luciano.
- Ah no, basta! - replicò Paolo risentito - Cechov è palloso e basta. Non potrò mai crescere abbastanza per farmi piacere Cechov. E’ inutile. Ci rinuncio. E rinuncio anche a spiegare perché non mi piace.
Stette in silenzio per qualche attimo, poi partì dietro a un’idea:
- Ecco, no, anzi... non mi piace perché mi fa dormire, e dormire non mi piace, perciò se preferisco il sonno vuol dire che Cechov è ancora peggio. E non mi dire che siccome ho dormito non posso giudicare... Lo spettatore addormentato è un critico acuto: il suo giudizio si è ormai maturato in una scelta definitiva e inappellabile. Il sonno non è una scelta, ma l’effetto della percezione... E’ la Sindrome di Cechov, più leggera di quella di Stendhal ma più diffusa, quindi a maggior impatto sociale. Da curare all’origine, stando alla larga dalle cause... Russi? No, grazie, sto cercando di smettere.
Ridevano bene assieme, quei due amici, con lo stesso gesto di mettersi la mano davanti alla bocca, come a scusarsi. Un gesto da seminaristi, anche se erano stati assieme solo dalle suore, all’asilo. Forse era lì che gliel’avevano insegnato, al tempo in cui t’insegnano i gesti che poi si crederanno istintivi, quando impari senza ricordare, quando sei una pagina bianca, come un quaderno di scuola appena comprato, che tutti vogliono iniziare in bella calligrafia, poi alla seconda pagina arriva una cancellatura, una macchia d’inchiostro, e poi le orecchie che la prima t’incazzi e la fai stirare a tua madre col ferro, ma anche quel quaderno farà la fine di tutti gli altri, con le macchie e i fogli strappati e che ognuno se lo tenga come gli pare che la responsabilità è la sua, noi alla prima pagina gliel’abbiamo fatto vedere come si fa, gliel’abbiamo dato il modello, se poi l’ha rovinato non è colpa nostra, e tu avrai sempre quella pagina bella, linda, che ti aspetta, e si mostra ogni volta per prima, che anche se la salti lo sai che lei è lì, a rinfacciarti il tuo fallimento. La crudeltà del buon esempio.
- Comunque, - fece Luciano rassicurante. - E’ stata una bella stagione... a parte oggi.
- ...e quella specie di Shakespeare?. - obiettò Paolo. - Scespìr, anzi - e declamò: - o’Sscespìr, chille ca nun chiagneva, ma faciva chiagne nuie?. Poveri autori classici, morti e perciò muti. O ci sarebbero tombe urlanti. Pensiamo a questi fantasmi disgraziati quando applaudiamo gente che meriterebbe la gattata.
- A Firenze l’hanno fischiato, lo sapevi, no?
- Sta’ zitto, mi son sentito un verme, quando l’ho saputo. Anch’io avevo applaudito, cosa credi? E prima di farlo ho anche guardato cosa facevano gli altri, ti rendi conto? Non siamo un bel pubblico, siamo solo dei provinciali col complesso d’inferiorità. Scambiamo ancora quello che non ci piace con quello che non capiamo. Il massimo della contestazione sono applausi timidi. E’normale che non piaccia quel che non si capisce, ma un pubblico maturo capisce quello che non gli piace. E noi non lo siamo. E quelli lo sapevano, sennò non avrebbero comiciato qui la tournée.
-Chisà, io non ho fatto la stessa cosa?
Quell’amarezza li accompagnò, senza più parole, fino alla piazza.
I bar avevano già chiuso.
- Hai sonno? - disse Luciano.
- Valà! Ho già dormito, no? Per me è l’alba. Proprio non ho voglia di andare a letto.
- Allora prendiamo due sedie.
- Eh già...come una volta.
Le tirarono giù dalla pila che stava tra le colonne del portico lungo, e si misero vicini, un pò di sbieco, guardandosi e guardando passare le ultime anime morte al teatro, che attraversavano la piazza come corpi estranei. Dirette non più alle case ma alle macchine parcheggiate fuori le mura, le suole come ostili al selciato, timorose dei luoghi che attraversavano, luoghi dei rimpianti inconfessati, ignoravano quei due reduci come tornando dalla campagna di Russia si schivavano quelli che si erano arresi fermandosi, per non cadere nello stesso destino.
Paolo e Luciano erano amici da sempre. Lo stesso quartiere, la stessa compagnia, anche una ragazza scambiata. Però di donne Paolo ne aveva avute molte di più. Era lui il bello della compagnia, “Bambola”, lo chiamavano. Luciano guardava ogni volta quel suo viso dolce e carnoso con invidia, specialmente quand’erano con le donne, sapendo che era a lui che miravano, e pensando a quante avrebbe potute averne lui, con quella faccia.
- Saranno quindici anni che non stavamo seduti qui, a quest’ora.
- Eh, sì. Facevamo le tre, le quattro, a discorrere... di cosa, poi?
- Ah, davvero, mi sa che non dicevamo niente: non me ne ricordo neanche uno di quei discorsi.
- No, io invece qualcosa mi ricordo. Come quella sera dei mondiali. Era l’ottantadue. C’era Carlin che criticava Bearzot: “la sapria fè io la formasion: Zoff, Gentile, Cabrini, Scirea, Tardelli...” e ripeteva tutta la formazione titolare dell’Italia che aveva giocato la sera prima, pari pari.
- Ecco, questo e’ un urbinate, - Luciano ritornò su quel pensiero - è come dicevo prima, è uno che crede di capire quello che è stato già capito da qualcun’altro, e poi va a trovare conferme che già conosceva. Ma lo fa senza accorgersi. E’ un buon vecchio coglione, l’età non c’entra. Qui si nasce buoni, vecchi e coglioni, circondati da buoni vecchi coglioni che ti insegnano come si sta al mondo. Cosa vuoi pretendere?
- Mah! Che amarezza. Siamo urbinati anche noi, e facciamo proprio così. Abbiamo sempre parlato parecchio. Le donne, a voi le americane a me il Beneluxury, “apri le cosce e impara l’italiano”, i gavettoni, le corse dei motorini, e poi, quando facevamo i seri, c’erano le idee assurde, le utopie, gli idealismi proclamati solo per far ridere o per far colpo sulle bordelle. E adesso, adesso che non abbiamo più la giustificazione dell’età, cosa stiamo facendo? Discorsi inutili, sofismi, equilibrismi verbali, verbosi, o magari anche nobili propositi che domattina non ricorderemo nemmeno, e intanto siamo sull’orlo dell’abisso. E già, siamo sull’orlo dell’abisso, perché siamo proprio noi gli ultimi, quelli che hanno la fortuna di poter contemplare il baratro nero in cui stanno per precipitare. Ti sei accorto che Urbino finisce con noi? Siamo gli ultimi nati all’Ospedale Vecchio.
A questo punto si fermò, soppesando l’effetto di quella rivelazione su Luciano, poi, vedendo l’amico pensieroso, si decise:
- Ho una cosa da leggerti. Piuttosto che dirti le cose che ho già scritto, magari facendo finta di pensarle sul momento, te le leggo direttamente. Qualcosa dobbiamo fare, no? E allora ho pensato almeno di rendere testimonianza... come Plinio il Vecchio con Pompei.
Tirò fuori dalla tasca un paio di foglietti piegati, mentre Luciano lo guardava, sorpreso e incuriosito.
- Pronto?
- Prontopronto. - riuscì a dire Luciano sorridendo alla sorpresa.
E Paolo cominciò a leggere :
- Sono nato all’Ospedale, quello vecchio. L’Ospedale Vecchio. Due parole che non resteranno assieme per molto: “...il Monastero di Santa Chiara ospitò per alcuni anni l’Ospedale della SS.Misericordia”. Come quando il morto aveva un soprannome, che non resterà.
Ogni giorno, parole tra loro sconosciute s’incontrano tra la folla per poi perdersi di vista. Se le lasciamo andare. E se invece le tratteniamo, anche solo per un po’, non le lasciamo più. Comincia un pensiero leggero, come quando mia madre spolverava i mobili, e nel raggio di sole che attraversava la stanza apparivano brevi fili di luce. Era soltanto polvere, lo so, ma mi piaceva guardarla farsi nobile luce e scintillare, prima di scomparire. La gloria di un attimo che passa. Come uno di quei pulviscoli, un pensiero gira e rigira, ne raccoglie altri su di sé, diventa pesante. E chiede di non scomparire.
Don Bramante.
Paolo, Icilio, Alessandro e Bramante sono i miei secondi nomi. Don Bramante ci teneva a restare. Affidò ai libri la sua memoria estesa e ai nomi quella ristretta, come messaggi in bottiglia. Ci battezzò tutti così, Bramante e Bramantina.
Siamo noi, i Bramanti e le Bramantine, gli ultimi ad avere avuto le mura di Urbino intorno al primo sguardo.
Su di noi è caduto il peso di anni che non abbiamo vissuto, ma che sono lo stesso nostri: la storia di cui eravamo eredi ce l’hanno caricata sulle spalle, prima di accompagnarci alla porta. Dietro di noi una lunga marcia, migliaia di anime antiche si sono lasciate per sempre le mura alle spalle. Soglia varcata, confine oltrepassato. Non ci sarà ritorno. Si muore di nuovo e per sempre, stavolta. Anche l’anima può morire. L’anima di una città.
Forse la colpa è di qualcuno. La colpa è certamente di qualcuno. Ma forse sono io che mi sbaglio: non esiste colpa. Un’intera comunità decide di lasciare le case della sua storia, e allora la colpa non esiste. E’ solo che la memoria non conta più, quando non rende. Verrebbe da pensare a cosa fare, cosa dire, se per qualcuno si dovesse fare o dire qualcosa. Invece va bene a tutti. Quasi a tutti. A me non va bene. Forse perché non ci guadagno. E nemmeno questa città, questo mucchio di vecchi mattoni forse urlanti, certamente muti, ci guadagna.
Forse parlo io per lei. Presuntuoso. Ma chissà.
Non pensavamo che sarebbe successo. Non è che non ci credevamo, è che non ci pensavamo proprio. E allora non c’importava nemmeno. I vicoli erano tutto il mondo, tutto il tempo.
Non volevo andarci, all’asilo delle suore. Mi tenevano ad un tavolo, a guardare i giochi chiusi e ordinati dentro a una teca di vetro. Stavo buono, al mio tavolo. Pero’ riuscivo ad essere rimproverato: non sapevo soffiare il naso. Non ho mai voluto imparare. Ancora oggi continuo a non voler saper soffiarlo. Una ribellione postuma. Se imparassi sarebbe come rimettermi seduto a quel tavolo, e fare il bravo bambino. Non voglio fare il bravo bambino. Non così. Il passato non passa, lo viviamo ancora, e i luoghi calpestati li sentiamo ancora sotto i piedi.
Aspettavo che ci portassero in giardino, così potevo vedere mia madre che mi salutava dalla terrazza di casa. Un supplizio. Solo nell’amore di una mamma riesce ad esserci tanta perfidia.
Per convincermi ad andare mi chiudeva dentro l’armadio buio. Ma stavo meglio dentro l’armadio buio che all’asilo delle suore. A volte riusciva a farmi arrivare fino davanti al portone, rivedo suor Elvira che mi accoglie a braccia aperte mentre le dico:
- Ho dimenticato il fazzoletto da naso! - e poi corro a casa per non ritornare. Mentivo, ma almeno facevo sapere che al mio naso pulito ci tenevo.
Tornavo dalla mia mamma e dal mio armadio. Nel mio armadio e nella mia mamma. Anche lei non voleva che andassi, l’ho capito solo adesso. Quel chiudermi lì non era altro che un ripormi nel suo ventre. E per quanto pieno di vestiti, era pieno di vestiti di madre, dell’odore di lei. Avevo anche visto uscire dei topi da quell’armadio, era un armadio a muro che dava sulle cantine. Ma resistevo. Dopo un po’ si cominciava a vedere qualcosa e ci si poteva sedere sulle coperte imbottite. Aveva paura che mi affrancassi da lei. Se ci portavano fuori stava in terrazza. Lei credeva di farlo per vedere me ma era perché io vedessi lei. Per farmi soffrire il rinnovo del distacco e non permettere che la ferita cicatrizzasse. Ma è così, sono così le mamme buone. Non si vuole mai perdere ciò che si ama, e se quello ci ama non lo si perde.
Però a spasso ci andavo con lo zio Gualtiero. Ricordi remoti: lui morì che non avevo ancora quattro anni. Ma ho ancora un fotogramma in mente: lui cammina ingobbito avanti a me, come vedevo fare a tanti vecchi allora, con le mani intrecciate dietro la schiena, ed io faccio lo stesso. Da allora ho sempre camminato un po’ piegato, e mi piace ogni tanto rimettermi le mani a quel modo e ricordarmelo. Andavamo verso l’osteria della Piazza dell’Erba, dov’erano i suoi amici, vecchi come lui. Anche le osterie erano vecchie, e sono morte con loro.
Facevamo il giro di tutte: l’Idea, in via Pozzo Nuovo, Cesare, in via del Leone, Montasò e Cecconi, una di fronte all’altra per Valbona, e chissà quali altre. Ogni tanto mi comprava un “biscottol”, una ciambella di pane secco d’anice, che sprigionava il suo gusto inzuppandolo nel vino. Più che di anice, però, sapeva di fumo, fumo di pipa e di toscano: era infilato da giorni, chissà quanti, su un magnifico tridente di legno appoggiato al bancone. Immagine di gloriose agresti fatiche, consacrate al tempo del riposo. Non c’erano finestre nelle osterie, solo la porta, e d’inverno c’era come una nebbia, dentro. Si trovano anche oggi quei biscotti, chiusi nei loro igienici cellophan, con la data di scadenza, gli ingredienti, i valori nutrizionali, le norme di conservazione. Non sono gli stessi biscotti. In questa storia non ci sono ”madeleines”.
Fu per andare in parrocchia che cominciai ad uscire da solo. La parrocchia di San Bartolo, compresa tra via Battisti e via Budassi, si espandeva fin sulle campagne verso il Sasso. Da Don Dante c’erano il biliardino e il ping pong. Eravamo in tanti a voler giocare, così chi perdeva usciva, oppure si giocava “all’americana”, correndo tutti attorno al tavolo da ping pong per colpire la pallina uno alla volta, e chi la mancava usciva. Quando si rimaneva in tre si correva come pazzi, attorno a quel tavolo, e s’inciampava. Marcello aveva due incisivi notevoli, e quando inciampò gli si piantarono sul tavolo. Quell’impronta involontaria è vissuta più di lui, il suo libero arbitrio lo ha portato via, un triste febbraio di qualche anno dopo.
Quello stesso tavolo, ogni agosto, si copriva di canne e di grandi fogli di carta verde, i colori di Lavagine, per la Festa dell’aquilone.
Eravamo i più forti, i più numerosi, un esercito agguerrito che partiva da una chiesa. Come i crociati, le armi benedette. E come per loro, se eccessi ci furono fu per una giusta causa: si tagliava qualche filo, si calpestava qualche aquilone, si faceva piangere qualche bambino, ma alla fine si vinceva, questo contava. E la sera andavamo a suonare i tamburi in giro per il quartiere dei grandi, odiati rivali, quelli degli aquiloni gialli, quelli di Hong Kong.
Ma la nemesi è venuta, e adesso dobbiamo vivere tutti a Hong Kong. Quel drago, quel mostro ha allungato i suoi tentacoli a dismisura, oltre le colline del nord, e li ha irrorati del sangue delle nostre vite. Ci ha stanati, estirpati, ci ha tolto anche la volontà di resistere, blandendoci con l’innegabile luce che inonda i suoi falansteri. Ci ha corrotti fino a tradire.
Così oggi a San Bartolo non c’è neanche più il parroco. Viene un canonico del Duomo per qualche vecchio, la domenica. Allora, la domenica, se arrivavi un poco in ritardo non riuscivi ad entrare, dalla gente. Dovevi passare da fuori, dalla sagrestia, e salire in cantoria con i più grandi che ti facevano i dispetti. C’era una gerarchia nei posti assegnati: i più piccoli, i catecumeni, assieme alle suore in prima fila. Ai lati dell’altare due panche per i più grandicelli, e infine l’ascensione, il traguardo della cantoria, per i ragazzi. Gli uomini stavano in fondo, vicino all’uscita o anche fuori. Istinto di antiche usanze contadine, dove gli uomini concludevano affari e baratti sul sagrato festivo. Dalla campagna a San Bartolo, e ora di nuovo fuori.
C’è stato il rigetto.
Per secoli la vita è trascorsa immutabile, poi pochi anni e tutto è scomparso. Gran sorte, aver memoria fresca di secoli lontani.
Facevamo i chierichetti incoraggiati dal Tabellone delle presenze. Una messa servita una casella annerita, e alla fine del mese mille, dico mille lire al primo, cinquecento al secondo e centocinquanta al terzo classificato. Verso la fine del mese, allo scatto finale, si andava alle benedizioni, ai vespri, ad ogni funzione possibile, a volte anche in cinque o sei, e la gente rideva. Si rendeva necessaria la divisione dei compiti. Ciò creava abilità ma anche rischi. Capitava di dover fare cose che non si erano mai fatte.
La corda della campana non era al pianterreno, una porta della cantoria si affacciava sul vuoto, all’interno del campanile. Un giorno un improvvisato campanaro venne risucchiato dalla corda dentro la tromba del campanile, e lo riprendemmo al volo un attimo prima che precipitasse.
Un’altra volta, dentro la sagrestia, facemmo a gara a chi riusciva a far fare il giro della morte all’aspersorio pieno di incenso fumante. A Veris, nel momento di massima spinta, scappò dalle mani, colpì il soffitto e i tizzoni d’ incenso si sparsero sul tappeto, sui paramenti dell’altare, e bruciacchiarono un po’ dappertutto. In un attimo riuscimmo a spegnere ogni focolaio e non si seppe più nulla. A me, uno di questi solerti pomeriggi di fine mese, capitò di servire un vespro da solo. Il mio dramma era la campanella, quella che si suona durante la cerimonia eucaristica, il momento più solenne di tutta la messa. Non l’avevo detto al don, volevo essere il migliore, ma non sapevo che fare. Così aspettai che si voltasse verso il ciborio, e in un attimo portai la campana a una signora che stava in prima fila, sicuro che lo sapesse: avevo individuato la più esperta.
- Suoni lei quand’è il momento, la prego! - lei si assunse quell’onere glorioso, e tutto andò liscio.
Sono convinto che il povero Don Dante in quelle occasioni pensasse seriamente di eliminare i premi. Oggi dovrebbe centuplicarli: non ci sono più bambini a San Bartolo, non c’è neanche più il prete. Ci sono i vecchi, i genitori di allora, che hanno visto i loro vecchi morire e i loro figli andarsene, e hanno gli studenti nelle camere che furono dei figli.
Non pensavamo che sarebbe successo, quando a decine inondavamo i vicoli urlando senza sapere il perchè. Volevamo esistere. Si grida appena venuti al mondo, e si continua a gridare per molto, fino ad essere sicuri che si sia notata la nostra presenza. Quando poi vorremmo nasconderci.
Dai vicoli sciamavamo spesso nella campagna appena fuori la porta di Lavagine. Era vicina, allora, la campagna, era parte della città. Appena fuori la porta c’era una grande volta, sotto la via dei Morti, che aveva sotto tre vasche comunicanti. La prima era bianca di sapone, e lì le donne lavavano i panni. La terza era limpidissima, per l’ultimo risciacquo. Questa era tabù per noi, guai a tirarci un sasso o anche solo a metterci le mani: ci scappavano urla e schiaffoni dalle lavandare.
Poco oltre i lavatoi cominciava la strada sterrata che portava al Perlo. Su un lato, in uno spiazzo appartato, il giogo per la ferratura delle bestie. Faceva impressione: ricordava le forche delle storie di Tex Willer. Ma il Perlo era soprattutto il luogo delle capanne: appena sotto la strada, la macchia si faceva ripida e fitta. Lì, a gruppi di due o tre, si puliva uno spiazzo di terra, lo si mimetizzava, ci si nascondeva qualcosa di nostro per renderne importante la difesa, si piazzavano trabocchetti all’ingresso. Poi si partiva per andare a scoprire e distruggere quelle degli altri. Le più belle, però, diventavano patrimonio comune, luogo di riunioni. Ne ricordo una grande e bellissima, rifinita a gradoni e aperta come un balcone sul fondovalle. L’orlo del terrazzo si affacciava su un fosso di rovi, e proprio lì sopra c’era una grossa liana. La prova del coraggio: lanciarsi con la liana oltre il baratro e tornare sulla terrazza. Naturalmente non ci si poteva sottrarre. E naturalmente a qualcuno sarebbe successo, prima o poi. Toccò a Donato. Quando si lanciò io ero lì. Vidi la liana spezzarsi nel momento di massima estensione, quando Donato era nel punto più alto e lontano. Lo vedemmo precipitare e scomparire nel baratro, senza un grido. Impiegammo tutto il pomeriggio per tirarlo fuori: ad ogni movimento le ortiche e i rovi lo ferivano, ma alla fine non si fece quasi nulla.
Ora su tutto questo ci passa la circonvallazione. A volte ci vado a fare una passeggiata, per rivedere dov’erano le nostre capanne, ma non c’è niente da fare, sono proprio sotto alla strada, e chi passa non ne sa nulla. In quanti posti passiamo senza sapere le cose incredibili e grandiose che hanno fatto bambini di cento e mille anni fa? Quali imprese possono aver compiuto quei bambini? Tutto, tutto era grande, anzi, “bestiale”, eppure le piccole immense cose che fanno i bambini nessuno le conosce, nemmeno quegli stessi bambini, una volta cresciuti, le giudicheranno così. E invece furono davvero immense le nostre avventure, perché accaddero in un tempo assoluto. Non c’era il senso della morte a relativizzare ogni gesto, non c‘era la comparazione col resto del mondo e della storia, c’eravamo solo noi e la nostra immortalità. Davvero pensavamo che non ci sarebbe mai capitato nulla, anzi non pensavamo affatto al tempo della vita. Pensavamo al tempo del giorno. Il resto del mondo era solo una messinscena, che ci trovava spettatori disattenti.
E’ rimasto solo il poggio da dove lanciavamo gli aquiloni. Un posto ideale per quello, non ci sono cavi, il vento può venire da tutte le direzioni, ed era bello starci seduto col filo di cotone in mano, con l’aquilone sospeso e stabile al centro del cielo. C’era anche l’ombra dei tre grandi pioppi. Loro ancora sono là, li vedo ogni giorno, ma se li guardo col ricordo sento un dolore. Mi sembra di averli traditi: loro non hanno disertato. Perché io, perché noi non siamo più ai loro piedi coi nostri aquiloni? Se anche loro non ci fossero più lo potrei capire, non ci sarebbe nessuno da andare a trovare. Visitare gli infermi. E gli amici fedeli che abbiamo abbandonato? Mi sento in colpa. Lo so che mi prenderebbero per pazzo. Se mi sedessi là, che cosa ci starei a fare, con decine di macchine che passano ogni minuto, curiose di gente, e i miei anni invisibili che non mi possono giustificare? Vorrei svegliarmi un mattino ed essere solo nel mondo, andare dovunque si voglia essere soli ed esserlo davvero, solo per qualche giorno, giusto il tempo necessario, poi far tornare tutti, ci mancherebbe, magari per scomparire io e lasciar fare agli altri lo stesso.
Andrei a lanciare il mio aquilone, e lascerei che il filo si aggrovigliasse tra i rami, per dire a quei pioppi “tenete, lascio a voi la matassa, ma attenti a dargli il filo quando lo vuole. Io tornerò presto: non ho ancora giocato abbastanza...”
A un passo da quei pioppi, poco più su, c’erano le viti e i ciliegi. Adesso li separa la strada. Tra quelle viti ci andavo con Agnese. Avevamo dodici anni. Quanti attimi dimentichiamo per sempre, anche giorni interi, magari di una settimana fa, e quanti, vecchi di venti o trent’anni, sappiamo che non scorderemo mai. Ricordo la posizione in cui eravamo, sdraiati sull’erba uno di fronte all’altra, e anche il giornalino che leggevo, Billy Bis, quel giorno che con un dito arrivai a toccarle il capezzolo, fingendo di continuare a leggere. Chissà quanto tempo stetti su quella pagina, su quella figura, con quel dito paralizzato. Vedevo Billy che saltava sulla sua Isotta Fraschini, e intanto immaginavo quel capezzolo. Aveva già dei seni ben formati, e io non sapevo che fare. Non ero capace di andare più in là e non volevo perdere quel contatto. Eppure gli anni e le ragazze successive mi dimostrarono che non ero affatto timido. Solo con lei non sapevo andare avanti. Forse non volevo. Non volevo abbandonare il tempo dell’innocenza, non volevo crescere. Del resto neanche oggi lo vorrei. Sono fatto così. Sono un immaturo. Non crescerò mai. Ma perché poi? C’è davvero un’utilità nel crescere, e quale? C’è una convenienza nel crescere, questo sì. La convenienza. Convenire, convenzione, convenzionale, piatto, sciatto, banale, comune, conformista. No, no, non voglio crescere. Voglio piantare un albero e vederlo crescere, quello è diventare grandi. E quell’albero voglio essere io. Io, l’unico che si è poi masturbato legggendo Billy Bis.
Un tralcio di vite, magari vorrei essere. Tra le viti ci si nascondeva bene anche di giorno, ci si andava con le ragazze, e si facevano baciare. Era inebriante come far l’amore davvero, ma allora non lo sapevo, e credevo che l’amore completo sarebbe stato sconvolgente. Per me era come lo sbarco dei marziani. Adesso è come vederli ripartire.
In pochi metri tanti episodi, e momenti tanto diversi, vissuti fuori le mura. Non so se i miei siano ricordi di città o di campagna. Penso che forse mi si preparava il destino degli esuli.

Paolo tacque. Alzò gli occhi e fissò l'amico in silenzio.
A quel punto Luciano pronunciò la frase che aveva pensato più volte durante la lettura, come un pensiero parallelo all’attenzione dell’ascolto, che gli scorreva su un piano diverso e personale:
- L’hai portato apposta per me, o ce l’hai sempre avuto in tasca?
- Ce l’avevo in tasca da un po’, ma aspettavo di leggertela stasera... non voglio che la legga nessun altro.
Poi, dopo una pausa e un respiro:
- Come ti sembra?
- Ah! Dici che non vuoi che la legga nessun altro e poi mi chiedi com’è. Chi ha un solo lettore si interessa della sostanza, non della forma, no?
Paolo stette zitto per un po’, prima di riconoscere la verità:
- Ma dai, lo sai benissimo che la forma è il contenuto, sennò non c’è messaggio. Il grande scrittore e il fallito sono comunque due grafomani. E io voglio sapere da te chi sono dei due. Perciò, se non piace a te lascio subito perdere.
- Madonna, che responsabilità! Non sia mai che privo la letteratura mondiale del nuovo astro nascente! Quindi non lo farò -disse abbassando il tono. - Diciamo che c’è una phoné che avvolge ed affascina, costringendo a darti ragione, la ragione che si tende a dare ai coerenti. Però lo sai cosa si dice delle autobiografie, che quando ci si accorge di non poter passare alla storia si passa alla letteratura. E’ una strada in salita, la tua. Ne riparleremo quando avrai scritto tutto, se avrai altro da dire... Piuttosto, vedo che ti brucia abitare fuori, eh?
- Non mi brucia abitare fuori, mi brucia esserci stato costretto. Non aver potuto scegliere. E poi mi brucia quel ricatto del paesaggio, del sole, che non è altro che una trappola maledetta: molti vanno a star fuori perché dalle finestre di questi casermoni, aggrappati al fianco della collina, lo sguardo si perde dietro al sole, fino all’orizzonte più lontano, e ti fa scordare quello che hai di più vicino. Quando sono andato a vedere il mio appartamento, infatti, mi son detto: “però, finalmente potrò vedere il tramonto, ogni sera, estate e inverno. Ecco, insomma queste case-fuori non sono poi così male.” E così ti fregano. Ti trasferisci, poi passa un po’ di tempo, non tanto, e una mattina vedi che cominciano dei lavori di scavo, un po’ più a valle. Piano piano, inesorabile, una nuova casa ti cresce davanti, proprio fra te e quelle colline, fra te e quel tramonto. Come per un condannato, il tempo del crescere di quel palazzo è il tempo che ti separa dall’esecuzione. Quello sguardo che si perdeva nei progetti lontani... non c’era limite al dilatarsi delle prospettive - la metafora con la vita è evidente, no? - finchè poi, una sera, tutto finisce. Il cemento ti rinserra. Una premorienza programmata, scientifica, già prevista nei piani regolatori, su documenti catastali che non conoscevi ma che esistevano certamente, in qualche luogo dove nessuno ti aveva accompagnato. Per pietà. Per non darti il dolore della verità. E’questa presa per il culo, che non mi sta bene.
Luciano si alzò di scatto, a un tratto insofferente a quel posto e a quell’indolenza, e anche alla china che stava prendendo il discorso, ma negandosi il pretesto di una fuga pensò ad una passeggiata finale che lo riconciliasse con quei mattoni:
- Dove hai la macchina ? - disse.
- Fuori Lavagine - rispose Paolo alzandosi anche lui, lentamente, come trattenuto da un peso invisibile.
- Bene, anch’io. Però, visto che non volevi andare a dormire, facciamo il giro delle mura.
Così tornarono di nuovo a quella strada, indietro per dov’erano venuti. Avanti e indietro, ma due sole volte nella stessa sera, fuori dai portici lungo i quali si facevano cento volte cento vasche in una sera, magari salutando cento volte cento le stesse persone, col saluto che però ogni volta si affievoliva, fino a sfumare nell’allusione di un sopracciglio, e per fortuna a un certo punto si andava a casa, ché se si fosse continuato ancora sarebbe arrivata l’indifferenza, poi l’odio immotivato, i futili motivi, la cagione di una rissa feroce. Motivi futili e profondi, l’odio di trovare nei tuoi simili la tua stessa condanna. Il carcerato che osserva il vestito dell’ergastolano e l’uccide nel vederglielo ben stirato. Perché? Futile motivo. O forse no. Simboli.
Ancora luci accese al teatro. Gente dimessa, lavoranti, il sotto le quinte. Gli venne in mente Dickens. Più leggeva e più ogni cosa reale ricordava a Paolo qualcosa di immaginario, di immaginato da altri. Disse:
- Hai ragione tu, devo ancora capire se scrivo o de-scrivo. L’autobiografia non è letteratura.
- Non è proprio così: lo è se ti limiti ai fatti. Cosa resterebbe della Recherche, se ci si limitasse alla fabula? Non preoccuparti, non pensare a come scrivere, che quello non s’impara, anche se qualche scrittore arrotonda le entrate allestendo improbabili “scuole” speculando sugli illusi. Scrivi per te, non per un pubblico che devi solo immaginarti. Immaginalo come migliaia di te stessi, amico ma non indulgente, ma soprattutto abbi delle idee originali. Se non sai cosa dire, sta’ zitto e basta. Se hai un’idea, buttati e non lasciarla finchè non si esaurisce da sola. Dietro una sola idea sono state costruite fortune. E la qualità non è mai andata a peso... quando l’hai cominciato?
- Quest’inverno. Mi volevo segnare quello che un giorno avrei dimenticato. Poi mi sono accorto che sto molto meglio nel passato che nel presente. Sono un soggetto ansioso, ho paura di ogni situazione, di non controllarla. Invece nel passato so cosa mi sta per accadere, fosse pure una malattia, un’umiliazione, una figuraccia. Lo so. Eppure so anche che per me non c’è nostalgia. Gli ansiosi non hanno nostalgia, se ricordano l’ansia, se di un episodio vissuto conservano solo l’aspetto esteriore, la sua immagine, dimenticando come l’abbiamo vissuto. Un po’ come diceva Pavese: non è bello esser bambini, è bello da vecchi ricordare quando si era bambini. Chissà quali cupi pensieri agitavano la tua mente, in quel giorno al mare che rivedi in un flash-back. La vita degli ansiosi è quella degli ipocondriaci, uno spreco. Ogni momento, bello o brutto che sia, ne minaccia uno peggiore e lo diventa. Ma basta, che i momenti belli sono quelli normali, così inerti da non contenere nessun pericolo attivo. La felicità teme il tempo, l’infelicità che questo si fermi. Solo la normalità non ha nemici, e gioisce dell’assenza del dolore. L’atarassia, consolazione dei mediocri.
- Ah, così questo sarebbe un momento atarassico: grazie - scherzò Luciano. - E va bene...
Adesso camminavano in silenzio.
Il silenzio non era assoluto, come non lo è mai da nessuna parte, nemmeno nel deserto, dove il battito del cuore e l’agitarsi dei polmoni si espandono nello spazio, e dilatano la presenza dell’uomo fino a non si sa dove, per rimandargli un’eco assordante. Quando si resta soli si diventa un simbolo. Si diventa tutti. Se fossi solo nel mondo, non sarei l’intera umanità? Solo la morte è silenzio nel deserto.
Passeggiando con un amico lungo le mura è bello il tacere, ha il sapore dei pensieri malinconici e confortevoli, restano in mente le ultime parole e se ne preparano altre senza fretta, come quando hai in bocca il sapore del caffè e non accetti nient’altro che possa rovinarlo. La voglia di costruire un castello di carte, portarlo sempre più in alto senza toccare ciò che già è stato fatto, la paura di far cadere tutto senza però potersi fermare, vedere dove si può arrivare, poi qualcuno apre la porta al vento, e tutto finisce in un crollo.
Luciano aggiunse una carta:
- Arriva un momento che si fanno i bilanci. Si tira una riga e...
- Basta! - lo interruppe Paolo - per stasera non abbiamo più niente da dirci a questo proposito, e siccome siamo ancora lontani dal parcheggio, cerchiamo di cambiare discorso.
- Ho capito! Quando non sai più cosa dire te, non c’è più niente da sentire.
- Dai giù, non fare il permaloso, che l’ho detto proprio per toglierti dall’imbarazzo. Mancava poco che dicevi “Tout passe, tout lasse, tout casse” e poi eravamo a posto.
- Eh, vuoi che parliamo di fica?
- Sempre un buon argomento!
- Va bene - Luciano vide dov’erano e gli venne un’idea - però solo se è pertinente coi posti dove passiamo, va bene?
- Eh... va bene - Paolo mise in moto i ricordi: - per esempio lì sotto. Guarda... - si affacciò al muro e Luciano fece altrettanto - vedi lì? Puntato contro il muro della volta ho toccato la mia prima fica. La Lupa...
- Ah, ah! La sapevo questa, c’erano passati a centinaia e te non sapevi cosa fare, sei andato avanti a toccarle la fica per un’ora finchè non s’è stufata, giusto?
- Cazzo, avevo tredici anni, mica sapevo fare tutto come te. Io ero di famiglia buona, venivo dalle scuole delle suore, mica dal Pascoli.
- Guarda che io ma la Luppa en ho manca mai avut el coragg’ da tocalla, carin, e se lo vuoi sapere quest’idea del posto m’è venuta guardando il torrione di S.Polo, dove ho conquistato la Joelle con le stelle cadenti. Quella sì che era un’impresa impossibile, atre che la Luppa! Te la ricordi, la Joelle? - alzò la voce. - Ti devi ricordare, tutti si devono ricordare, guai a chi se la scorda, cazzo. Era la mia, e non ne avrò mai più, una così bella. E in qualunque posto sia, di sicuro è sempre troppo lontano da me. O forse mi sta guardando da chissà dove, lei, troppo bella per un solo pianeta, una delle migliaia di forme di vita dell’universo, ma la migliore di tutte, col suo telescopio potentissimo... - poi salutò con la mano il cielo stellato e disse: - Ciao Joelle, ovunque tu sia, sei sempre mia!
- Adesso ho capito perché i marziani non vengono: li spaventi te! - disse Paolo. Ma Luciano continuava a perdersi:
- Eh, già... migliaia di forme di vita, sì, che esistono certamente. Di questo ci convinciamo facilmente. Ma allora esistono anche migliaia di forme di morte, no?
- Forme di morte... la morte è sempre una sola, per tutti;: semplice assenza.
- Allora c’è anche in quei pianeti dove la vita non c’è mai stata. Quindi la vita c’è solo in qualche posto, e ancora non siamo sicuri nemmeno di quello, mentre la morte è sicuramente in molti più posti.
- Non è detto, - disse Paolo: - se nell’universo c’è un equilibrio di ogni cosa e del suo contrario, e molti lo dicono, contrapposti alla morte desolata che ci circonda in questo sistema solare, devono esserci ammassi stellari pieni di vita, dove i pianeti rigurgitano di folla che urla, si accalca, si accoppia e passa da una festa all’altra cavalcando missili a forma di tappo di champagne che fischiano e fischiettano da un pianeta a quello dei vicini e non hanno pace, e nei rari momenti di riflessione si domandano se esistono pianeti disabitati in qualche posto dell’universo, dove rifugiarsi e attendere finalmente una morte che non arriverà. Mah...! Pensa un po’ se la Joelle, se è in uno di ‘sti pianeti goduriosi, si mette a perdere il tempo a guardarti. E poi, se deve guardare a uno, guarda a me.
E così ripresero la strada parlando di donne, e ce n’erano di storie da raccontare lungo lo Spineto, al torrione di S.Chiara, fino alle mura di S.Bartolo. Solo per pochi momenti tornarono ad alzare la testa, quando Luciano notò il passaggio di Giove sullo Zenith, e dopo aver rievocato una conquista dovuta alle stelle cadenti aggiunse:
-Vorrei che ogni sera fosse S.Lorenzo, - disse - e che le stelle a cadere fossero tante di più e tanto più luminose e di tutti i colori, che cadessero tutto l’anno, anche di giorno, che le potessero vedere anche i ciechi, e che i desideri si potessero avverare tutti, anche quelli opposti fra loro. Eppure non sarà mai così. Vedi? Non è il migliore dei mondi possibili. Questo potrebbe farmi pensare che Dio non esiste, e invece non sono sicuro di nulla. Penso anche che forse Dio ha fatto questo mondo imperfetto proprio per lasciarci nel dubbio. In un mondo perfetto non c’è spazio per i dubbi. E allora la Fede, che ha la natura del dubbio, cosa sarebbe?
La domanda avrebbe meritato un contesto più serio, infatti la lasciarono cadere nel vuoto e ripresero a parlare di sesso spinto come se nulla fosse stato. Non c’è niente di più immaginifico delle storie di sesso. Arrivarono alla porta di Lavagine che avevano appena scalfito l’argomento. Si può non finire mai di parlare di donne, ma arrivò comunque il momento di salutarsi.
- E adesso, quanto staremo senza rivederci? - disse Paolo
- Finchè non avrai finito un altro capitolo, no?
- Spero prima... chissà se ci rimetterò le mani.
- Ah, no, voglio vederlo finito, lo sai che non sopporto il tempo perso, perciò a questo punto lo devi continuare e finire, va bene?
- Va bene.
- Promesso?
- Promesso!
- Buonanotte.
- Ciao.
E anche quella sera, arrivato a casa, sebbene fossero le due e un quarto, Paolo stette un po’ a guardar dormire suo figlio, e come ogni sera sentì il suo petto riempirsi di gioia e tristezza, pensando all’amore e alla bellezza, e a tutto quello che non dura. Lo baciò, poi se ne andò a letto. La mattina dopo avrebbe dovuto lavorare, ma continuava a pensare. Non era un pensiero solo, ché quelli prima o poi si stancano e ti lasciano dormire, era un rigirare di sospetti e di progetti che si accavallavano e lottavano per prevalere uno sull’altro, e lui dava retta ora questo ora a quello, senza poterli trattenere. Il risultato era un gran rumore in testa: Luciano voleva che proseguisse, ma diceva di volerlo solo per amicizia o perché gli era piaciuto davvero? E se gli piaceva, cosa lo aveva affascinato, il soggetto, lo stile, il ritmo? Scrivere cambia solo la vita mentale o anche quella pratica?
Alla fine, come ogni sera, prevalse il fatalismo, la disposizione dell’animo che precede ogni sano riposo e concilia col sonno inevitabile.
Il mattino dopo si sentiva diverso. Ricordava una delle risoluzioni prese alla vigilia del sonno: doveva escludere dalla sua vita tutto quello che non contava. Abbandonare tutti gli incarichi inutili, le perdite di tempo, i progetti a corto respiro. Segretario del Circolo Motociclistico: cosa avrebbe mai potuto dargli in cambio di questo, la vita? Nulla, perché lui non offriva nulla.
Così anche quel mattino, come gli accadeva ogni tanto, probabilmente più spesso di quanto non accada di solito a un uomo, gli venne in mente l’ultimo momento della sua vita, e si divertiva a pensare alla frase che aveva già pronta: “avant moi... le déluge!”: la sintesi della sua vita, il disastro che si era trascinato con sé, senza avervi saputo porre rimedio. Un passaggio inutile, un lento trascorrere di tempo sprecato, e solo per questo apparentemente breve.
Perché infatti si pensa a un fatto di dieci anni prima, e subito ci sembra che sia passato solo un giorno? Perché è passato davvero solo un giorno, è sempre stato lo stesso giorno che si è ripetuto tremilaseicentocinquantadue volte, sempre lui. Quali altri fatti si sono frapposti fra noi e quel giorno, se non vuoti episodi, morti pensieri inutili? Il lavoro, la spesa, lavare la macchina, la pratica, la visita, la chiacchiera, il saluto, la cena, la televisione, il sonno, poi il lavoro, la spesa, la benzina alla macchina, la pratica, la visita, la chiacchiera, il saluto, la cena, la televisione, il sonno. Si vive senza pensare che un giorno scopriremo che la vita ci è passata sopra, o sotto, o addosso, o di lato, comunque ci ha superati, noi e le piccole cose inutili a cui tenevamo tanto, e che a quel punto desidereremmo ricominciare tutto daccapo con una nuova e più forte coscienza.
Pentimenti, rimorsi, rimpianti. Sprecare la vita, questo è l’inferno. Provate allora a pensare al viaggio che avete fatto dieci anni fa, e trovate almeno un ricordo preciso per ognuno di quei dieci anni. Solo dieci ricordi. Sembra facile, ma potrebbe non esserlo. E allora, vorrebbe dire che un intero anno l’avete perduto, e a settant’anni non avrete nemmeno messo da parte settanta fatti memorabili. E di quei pochi non riuscireste nemmeno a scrivere, le lacrime agli occhi non vi farebbero vedere.
La paura ci fa vivere come sorci, rintanati nelle nostre deboli sicurezze, ci toglie la forza di metterci in discussione, di tentare la via di un’utopia che pure certamente abbiamo. Paura della miseria, della malattia. Il sollievo di un povero ammalato è che non ha più nulla da temere. E la morte toglie anche gli ultimi timori. Ogni giorno un “vorrei”, ogni giorno frustrato dalle mille aderenze su cui scarichiamo la nostra vigliaccheria, la catena del condannato ce la siamo forgiata da soli, e non si cerchino scuse.
Tutti questi furono i suoi pensieri di un attimo. Non li dispiegò in parole, ma non ce ne fu bisogno. Ormai erano i suoi compagni di viaggio, e non se ne sarebbe più separato.


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sabato 9 maggio 2009

Ritorno a Urbino

Ogni volta che si trovava a passare accanto al torrione di San Polo, Luca non poteva fare a meno di guardare oltre le mura, verso sud, sorvolando con lo sguardo la schiera di valli e colline che si disponeva crescendo fino ai più alti crinali dell’Appennino.
E ogni volta ripensava a tutti i paesaggi del mondo che aveva già visto nella sua pur non lunghissima vita. Anche provando a rivederli tutti assieme non ce n’era uno che gli fosse mai sembrato degno di quello. Non si capacitava del fatto che tutti i suoi viaggi fossero stati inutili, nel cercare qualcosa di più bello. Eppure non era certo di sentirsi felice di avere ogni giorno una simile fortuna: era condannato a restare deluso da qualsiasi viaggio avrebbe potuto intraprendere.
“Meglio delusi per quindici giorni e felici il resto dell’anno che viceversa: ogni volta che torno sono più consapevole della mia fortuna”.
Quando poi gli capitavano mattine come quella, con la nebbia lucida e bianca che adagiandosi al fondo delle valli ne distingueva il profilo una ad una nel modo in cui Paolo Uccello dosava i colori tra i cavalli nel Miracolo dell’ostia, forse illuminato dalla stessa visione cinque secoli prima, avrebbe voluto restarsene lì per sempre.
Invece doveva andare.
Si congedò dallo spettacolo continuando a goderselo fino alla coda dell'occhio per poi proseguire il tragitto verso Piazza del Mercatale: la gita scolastica che lo aspettava sarebbe arrivata a minuti e voleva essere puntuale.
In pochi passi fu sotto la volta che passava sotto le mura. Nel punto più oscuro della parete si apriva una grotta buia dove da ragazzini entrava chi veniva sottoposto alla prova del coraggio. Si cresce e si invecchia lasciando tracce in giro dappertutto, come bava di lumaca. Passò avanti a quei vaghi ricordi e uscì nuovamente al sole, costeggiando le mura per raggiungere poi il luogo dell’appuntamento.
“Le nove e non si vedono. Se fanno tardi dovremo farla tutta di corsa. Leggo “Vivere con lentezza” e sono abbastanza nervoso. Certo che anch’io, comunque, comprare un libro con quel titolo… scritto da un professore universitario: fa bene lui, arriva alle nove, fa lezione, riceve uno studente se va bene, poi va in piazza, tavolo del bar, giornale, aperitivo e appunti sul moleskine per il nuovo libro “Dominare l’ansia dell’happy hour”. E tu coglione, che alle otto timbri il cartellino, non esci fino alle due per poi mangiare alle tre, che alle tre e mezza accompagni un figlio in piscina e l’altro a calcio (guai, senza lo sport, e poi lo fanno tutti, ma i compiti guai ancora di più e come fai a non aiutarli?) fai la spesa e tutte le altre commissioni mentre la moglie fa il corso di inglese, ceni, poi una partita a tennis perché a quarantanni non ti rassegni ad aspettarlo tu, l’infarto, “se deve venire decido io”, ma tutto questo solo se non devi fare una relazione che in ufficio è impossibile con quel casino da fare e poi sul comodino “Vivere con lentezza”. Così vai a dormire incazzato e la domenica pure un gruppo di turisti perché hai ancora il patentino e cento euro fanno sempre comodo (chi te lo fa fare, oggi dovevi vivere la lentezza, bravo tu a seimila euro al mese, bravo bravo bravo).
Almeno potevo pulirmi meglio le scarpe, se lo sapevo che tardavano, ci ho fatto il guardalinee ieri con queste scarpe perché i genitori vanno coinvolti nello sport dei figli, lo dice la federazione perché altrimenti non lo fa nessuno e come fai a dir di no? Il padre che rifiuta la bandierina davanti a tutti con la scusa delle scarpe buone, esplicito diniego alla virilità con insinuazioni relative e conseguenti sospetti sulla paternità del ragazzo può generare un trauma infantile irreversibile, non sia mai. Ecco chi sono i guardalinee in serie A, ci si chiede sempre chi glielo fa fare, devono avere un figlio che gioca, anche in serie a, magari un figlio segreto, sennò non si spiega. O magari è l’arbitro che è loro figlio. Ecco. I guardalinee sono il babbo e la mamma dell'arbitro.
Eccoli.
Bel pullman, si apre con un bel suono frusciante, la prima a scendere è l’insegnante…
Oddio. Si sente mancare il fiato, deve dominarsi ma non ci riesce, sente avvamparsi di rossore e adesso, proprio davanti a lei non vorrebbe mai. Non sa cosa dire allora è lei che parla:
- Ma guarda chi c’è! Ci avrei scommesso che ti avrei incontrato, ma mica subito! – il suo sorriso spudorato è sempre quello, ridente anche quando il resto del viso è serio, ed è bella come un tempo. Solida e dorata. E come allora non si scompone per nulla. Fanno così le donne, quando non amano. Gli si avvicina, lo bacia sulle guance. Lui ancora non sa cosa dire, vorrebbe dire qualcosa di intelligente ma che si può dire se non:
- Bea… -
Si squadrarono senza parlare per qualche interminabile secondo, poi Luca parlò: - quanti anni sono? Aspetta, esattamente ventisei. Ma mi avevano detto una scuola di Rovigo, mica di Ferrara, sennò avrei davvero pensato a te.
- Infatti insegno a Ferrara, carino, come vedi. Poi mi dirai chi ti ha dato l’informazione. – disse, ma intanto guardava i ragazzi per poi alzare la voce - Bene, oggi staremo insieme tutta la giornata ma non devi mica parlare solo con me. Ci sono qui i nostri baldi giovani della Scuola Media “De Chirico”. Ragazzi, salutate Luca che oggi ci farà da Cicerone - e quelli obbedirono in coro.
Quanto parlava. Aveva sempre parlato tanto, l’aveva stordito, in quel mese che avevano passato assieme. Ma non solo con le parole. Luca non aveva più amato una donna così come aveva amato lei. Non era un fisionomista ma quelle labbra carnose, quegli occhi sempre più sorridenti della bocca erano rimasti sempre nella sua mente come la promessa della felicità.
Mai mantenuta.
Sarebbe stata una giornata dura. Si sentiva quasi svenire e pensava di non essere a posto, quelle scarpe sporche, e poi, se solo l’avesse saputo, avrebbe dato il Drakkar che usava in quegli anni, che ora non esisteva più ma di cui lui aveva ancora una miracolosa bottiglia che lasciava alle grandi occasioni e questa dio mio se lo era. Era la più grande di tutte. Ma comunque anche allora il Drakkar non era servito.
Con quello che gli consentivano le gambe, accompagnò la comitiva verso l’ingresso della città, come se andasse verso casa. Poi si ricordò che da quel punto avrebbe dovuto introdurre la visita, mica così senza neanche presentarsi. Insomma, dai, facciamogliela vedere. Ebbe uno scatto di vita e si ridestò fermandosi:
- Ecco, ragazzi, fermiamoci qua. Da questo punto potete ben osservare la facciata della città. Da qui voi vedete gli occhi di Urbino, e si sa, gli occhi sono lo specchio dell’anima. E siccome Urbino è stata definita “città dell’anima”, è importantissimo guardarla dritta negli occhi. Quante volte avete visto sguardi inespressivi, occhi spenti, scoprendo poi che erano gli sguardi di persone aride, che nulla vi avrebbero dato e da cui né voi né il mondo avrebbero mai ricevuto nulla? C’è gente che ha occhi come vampiri, buchi neri che succhiano la vita senza dare niente in cambio. Gli occhi di Urbino invece sono luminosi, danno luce piuttosto che rubarla. Ma voi dovete essere bravi a incontrarli, quegli occhi, perché sono nascosti, sono come quelli di una ragazzina che vi sorride da un vicolo e vi sfugge dentro a un portone per salire le scale di una mansarda.
Sono così, a Urbino, gli sguardi. Sono come gli occhi delle studentesse.
Non sai mai dare gli anni a questa città, ne ha cinquecento o ventidue? Gli studenti non invecchiano mai. Hanno sempre vent’anni, appena crescono scompaiono e lasciano il posto ad altri ventenni, e noi li ricordiamo sempre così.
Cercava di non guardarla, mentre parlava. Poi si ricordò che si stava rivolgendo a dei ragazzini e disse:
- Da qui vedete la facciata del Palazzo Ducale, costruito nel XV secolo da Luciano Laurana, architetto dalmata che realizzò il sogno e il progetto di Federico da Montefeltro, uno dei più grandi principi e condottieri del Rinascimento, che però volle restare nella storia della cultura piuttosto che in quella militare. Più per l’amore che per l’odio, più per aver creato che per aver distrutto. Forse voleva farsi perdonare le cannonate con cui rovinava le splendide città fortificate del suo tempo. Per questo vorrei che ricordiate questa città come una città che vi riama, se voi l’amate. Mica succede tanto spesso, in amore anzi è cosa rara. Guardate questa facciata dei torricini: è in ombra, fredda come una bella donna senza sentimento – parlava a quei ragazzini a sguardo basso ma pensava a lei, e faceva fatica a usare le parole giuste - poi il giorno avanza, la luce sale, il sole gira, il vostro amore cresce e a un tratto la vedrete arrossire di tenerezza e di vergogna. Non a caso il rosso dei suoi mattoni si chiama cotto. Cotto come dite voi quando siete innamorati, è vero ragazzi? C’è nessuno che è cotto, tra di voi?
I ragazzini risero e guardarono tutti uno di loro gridando “Giovanni, Giovanni!!” e il poverino diventò tutto rosso.
- Ecco, avete visto? Giovanni è diventato rosso, forse perché è cotto davvero e non vogliamo sapere di chi, vero? Lasciamolo in pace. Scusa, Giovanni, abbi pazienza. Dicevo che... su, silenzio per favore, dicevo che poi la sera, quando torneremo in questa piazza alla fine del giro e visto che oggi è una bella giornata serena sarà così, forse la troveremo finalmente rossa, cotta di passione, di quell’amore caldo e forte che matura e poi dura per sempre, fino al tramonto.
Quello che farete oggi è un viaggio breve e lunghissimo al tempo stesso. In un giorno solo tornerete indietro di cinque secoli –
Girò le spalle e si avviò verso l’ingresso alla città, pensando “e io di vent’anni” abbandonandosi per un attimo all’ansia di averla vicina.
- Adesso entreremo in città attraverso una delle porte del tempo, la Porta di Valbona. Poi saliremo subito a sinistra per via Piola di San Giovanni.
- Eros e Thanatos – disse Bea raggiungendolo. – bella questa cosa del cotto, non me l’avevi mai raccontata. E sì che me ne avevi raccontate di storie.
- Assisi – disse Luca sorridendo – ti ho portato su un monte qua dietro e tu vedesti la cima di un campanile. "Cos'è quello?" Mi dicesti. “San Francesco” ti dissi per dire la chiesa, e tu ”che San Francesco?” di Assisi, no? “Ah quello è Assisi, ma allora è vicino a Urbino". Anche tu ci avevi portato in Umbria, ma almeno a modo tuo.

Salirono quelle piole senza mai voltarsi. Lui sapeva dello spettacolo che sta crescendo alle loro spalle, ma si guardò bene anche solo dal dare un’occhiata, perché quella salita era il preludio del colpo di scena, l’apertura del sipario, come la scalinata di Filadelfia di Rocky o quella di Montmartre. Arrivati in cima infatti, Luca si aprì in un sorriso senza parole, e quando tutti furono arrivati, si limitò a guardare finalmente all’indietro.
Era in quei momenti che si sentiva completamente urbinate, orgoglioso di una bellezza che lo coinvolgeva fino a far sentire più bello anche lui. E’ inevitabile, vivere nella bellezza è come stare in acqua, non puoi non bagnarti.
I Torricini si mostravano come facevano sempre, da quel punto.
- Li vedi? Sono come te, ridenti e fuggitivi - le disse.
- Sfuggenti, direi, quasi sdegnosi.
- Antipatici, vorresti dire.
- No, voglio dire nobili, alteri. Consci della loro impossibilità a concedersi subito, anzi sapendo che non lo faranno mai.
- Sembri conoscere questi sentimenti.
- Forse li conosci meglio tu. Io, per parte mia, ancora mi devo conoscere.
- Non ci si conosce mai abbastanza, se non ci si vede da fuori.
- E tu la vedi da fuori, la tua Urbino?
- Ci provo, pensandola così ambigua, una donna col nome da uomo, androgina. Urbs bina, è il suo nome antico.
- Doppia, misteriosa, quindi.
- Sempre. Non sai mai qual'è la parte che stai osservando.
- E chi la studia la comprende meglio?
- Non mi sembra. Quando sento gli storici, gli esperti, mi sembra di sentire dei cardiologi che parla d'amore. Hanno talmente studiato il dettaglio che non vedono più l'assieme.
- Maestra, mi scappa la pipì!
Luca si ridestò da quel sogno che stava dilatando il tempo. Lei aveva quella capacità di far uscire ogni cosa che aveva dentro, era come una psicanalisi, parlare con lei. Mai nessuna aveva saputo fare niente di simile.
Con lei non avrebbe parlato della spesa.
E quando l'avessero fatto, non sarebbe stata una spesa inutile.
Luca riprese il controllo della sua professionalità:
- Ragazzi, adesso per favore. Vi prego di accostarvi in silenzio. Ecco. Perché ci sono cose che vanno viste in silenzio. Si chiamano stanze dai muri parlanti. Sì, ci parlano, ma la loro voce è flebilissima, bassissima. Non ce ne sono molte, nel mondo, ma sono quasi tutte in italia. I muri parlanti, forse ne avete visti altri. La cappella degli Scrovegni a Padova, La Basilica di Assisi, la cappella sistina al Vaticano.
- Assisi! – alzò la mano il piccolo Giovanni con entusiasmo - Io ci sono stato… - abbassò la voce quasi vergognandosi - ma non ho sentito niente.
- Perché non c’era il silenzio, o perché non stavi ad ascoltare. Adesso proviamoci qua. Questa è la Chiesa di San Giovanni, con i muri parlanti dipinti dai fratelli Jacopo e Lorenzo Salimbeni. E’ il loro capolavoro. Ci hanno lavorato dieci anni, vediamo se ne è valsa la pena.
I ragazzi fecero silenzio e si misero in fila davanti alla porticina d’ingresso. Bea si accostò a Luca:
- I muri parlanti, ma questa dove l’hai sentita?
- E’ un buon trucco. Ma non ho ancora imparato a farli parlare davvero.
- Ci penso io.
- A far cosa?
- Entriamo e poi vediamo.
Bea pagò il biglietto cumulativo ed entrò, avanti a tutti. Nell’invitare i ragazzi ad entrare fece un gesto morbido con la mano che per Luca fu come una pugnalata: era lo stesso gesto con cui, sporgendosi dalla finestra, lo invitava a salire da lei tanti anni prima. I ragazzi entravano mentre lui lottava contro i ricordi e l’emozione. Se sveniva adesso avrebbero pensato a una sindrome di Stendhal, ma il pathos era in ogni caso quello giusto per comunicare emozioni. Alla fine entrò anche lui dopo aver abbassato la testa.
Attese un minuto buono e studiato, prima di sussurrare:
- Questa storia ha seicento anni. Non avevano ancora scoperto l’America e siamo ancora nel Medioevo, ma è con artisti come i Salimbeni che il mondo si illuminava verso il Rinascimento. La storia che vedete è quella di San Giovanni Battista… Luca proseguì raccontando ogni riquadro e spiegnado la tecnica dell’affresco a quei ragazzini a testa in su. Quando finì, invitò i ragazzi al silenzio, che ascoltassero quel che i personaggi alle pareti avevano da dire loro.
- Ecco, sentite? Fece Bea, l’ho sentita. E’ lei! – E puntò l’indice verso la disperazione di Maddalena ai piedi del crocefisso. Oh poverina! Poverina! – Si avvicinò all’altare che sottostava al grande affresco di fondo come fosse in trans mentre Luca, superata la sorpresa, era sbalordito e divertito (“meno male che non c’è gente”, pensava). Bea si rivolse a quella donna in rosso quasi chiedendo di essere ricambiata - Quanto piange, sento il suo lamento per il perduto amore, oh! Lei lo amava, capite? Non è il Dio fatto uomo, è lui, è Gesù, il suo uomo, il suo amore, il suo innamorato. Non è solo dolore, è rabbia, rabbia verso il mondo, verso anche Dio e quel suo cavolo di sacre scritture che il suo amore ha dovuto rispettare mentre avrebbe voluto restare con lei, magari vivendo da semplice uomo. Verso anche se stessa che non aveva saputo amarlo fino a farlo desistere da quel volontario martirio della croce. Piangi, piangi e nessuno ti ascolta, ma io ti sento! – Abbassò la testa e pianse davvero, tra l’imbarazzo di tutti. Luca le si avvicinò e l’abbracciò
- Stai bene?
Bea gli strizzò l’occhio e sorrise, mentre nella chiesa er acalato un silenzio diverso da prima. L’eco delle sue parole vibrava nei cuori dei ragazzi che più che cercare di ascoltare si guardavano attorno improvvisamente assediati da quelle figure incombenti:
- Maestra, andiamo via, ho paura! Fece Marianna, e un brusio si diffuse tra i ragazzini
- Sì, sì, andiamo via – fecero in coro gli altri avvicinnadosi all’uscita
- Hai visto come hanno parlato bene, questi muri’
- Tu sei matta. Mica li volevo terrorizzare così, mica siamo a Gardaland, è una cosa seria. Se tornano traumatizzati io non c’entro niente, sia chiaro.
Una volta all'aperto, fortunatamente tornò la calma. I ragazzi si disposero a salire verso la Fortezza Albornoz, dove Luca e Bea ritrovarono la loro panchina affacciata sulla città.

Luca aveva ripreso una certa sicurezza e questa volta voleva dirle tutto quello che non aveva avuto il coraggio di dire allora. E lo fa fingendo di scherzare, come faceva sempre con le ragazze. Lo scherzo è sempre una porta aperta per scappare.
- Certo che adesso possiamo ragionare da adulti. In fondo, anche se non eri innamorata, potevi anche darmela, che ti costava? Ti ho scarrozzata con la moto per un mese in giro per mezza provincia, ho litigato per causa tua con quella ragazza che poi sarebbe stata mia moglie e che in cuor suo ancora oggi ha nel cuore l’idea che io sia tornato da lei solo dopo che tu te n’eri andata via. Non è bello sapere o pensare di essere un ripiego. Ma tu, belle dame sans merci, niente.
- Fai presto a dire, tu. Qua siete abituati a saltare addosso alle studentesse o alle turiste. Immagino che il corteggiamento vada in proporzione al tempo disponibile: con le studentesse avete tre o quattro anni per cui potete anche essere romantici, ma con le turiste da mordi e fuggi immagino ci siano strategie d’assalto tipo teste di cuoio. Io in fondo ero una via di mezzo, corso estivo, un mesetto a disposizione, e facevi in tempo a far l’innamorato.
- Ma cosa dici? Vuoi farmi male anche oggi? Non sai quante volte ho pianto ogni volta che ti ho pensato, e solo evitando di farlo ho smesso, non certo perché il tempo abbia curato la ferita. Con te ho capito che la vita non mi avrebbe dato tutto quello che volevo, ero stato un bambino viziato e non ci avevo mai sbattuto il muso, sulle delusioni. Tu sei stata la prima, e purtroppo non l’ultima e dopo di te la mia vita non è stata più la stessa, sei stata l’atterraggio duro dal volo nelle illusioni. Senza paracadute. E’ vero che ho dimenticato anche il nome di quelle che ho portato a letto, non mi ricordo quasi più niente di loro. Ricordo una delle ultime prima di sposarmi, e non era neanche male: mentre ci facevo l’amore mi sono stancato di quel movimento meccanico di su e giù su e giù e non vedevo l’ora di smettere, avrei voluto scappare e pensavo che davvero non ne valesse la pena perché alla fine sono tutte uguali. Voglio dire, per me poteva anche finire tutto nel momento in cui una ragazza mi diceva di sì e si concedeva. Ecco perché ho pensato a questa fissazione per te. Perché con te mi è andata male. Mica perché ero un tombeur de femmes, ma perché quel tuo cercarmi continuamente mi aveva illuso e spiazzato. Puoi anche non credermi, ma io ero innamorato pazzo di te… Ma non preoccuparti, non ti dirò che lo sono ancora. Siamo seri, anche perché da quando mi sono sposato non mi sono più permesso un tradimento. Forse anche per il motivo che ho detto.
- E va bene, in tema di confessioni posso dirti che sono stata un po’ stronza con te, avevo visto che eri perso per me… - si mette a ridere – in effetti adesso magari te la darei, ma allora ero quasi vergine e mi ero appena lasciata col moroso, avevo voglia solo di ridere e tu mi facevi ridere tanto. In fondo avresti dovuto essere orgoglioso di questo: sapevi accontentare una donna.
- Di questo sono sicuro. Fuggivi da tutti, sotto la tua finestra ogni tanto c’era qualcuno che ti chiamava e tu niente, solo con me e la mia moto volevi scappare via. – si ferma un attimo a pensare, poi riprende – Quasi vergine? Ma che significa “quasi”, o si è vergini o non lo si è, è come nel calcio, mica si può dire “quasi gol”, il pallone o è entrato o non è entrato. E tu con me vincevi già sei a zero, che ti costava farmi fare un golletto?
- Eh già, ma poi mi avresti dimenticata come tutte le altre, invece così sono rimasta per sempre nel tuo cuore. In fondo ho fatto per te quello che vorrebbe fare proprio una donna innamorata. Far sì che il proprio amato l’ami per sempre e proprio questo ho fatto per te. Quello che nessun’altra ti ha fatto. Dovresti ringraziarmi, per questo. E’ curioso no?
- Il guaio è che ti compiaci pure, del ragionamento. Adesso vedo cos’è quel sorriso, è lo stesso sorriso che hai sempre avuto, le guance arrivano quasi a chiuderti gli occhi. Ma adesso capisco che non è il dolce sguardo della bontà o dell’amicizia e men che meno dell’amore, non mi illudo più di certo. E’ lo sguardo di un serpente, animale dal sangue freddo. E il sangue dove va e da dove viene se non dal cuore? Hai mai davvero amato nessuno?
Luca è riuscito a spegnere quel sorriso con quella domanda cattiva che gli era scappata.
- Perché ti sei fatto così amaro? Non vuoi perdonarmi di non essermi innamorata di te? Amor che a nullo amato amar perdona? Che colpa ne avevo, avevamo vent’anni e a quell’età si fa tutto meno che pensare, si fa tutto di corsa, sei sulla cresta della vita e pensi solo a prendere il vento e il sole fin che ce n’è. Non credo che neanche tu fossi tanto altruista e generoso. Tradivi la tua ragazza ma l’hai sposata, spero che l’amassi e che l’ami ancora ma questo non ti impediva di tradirla ad ogni estate. Mi rimproveri di non avertela data ma dici di averle dimenticate tutte: sei tu che mi offendi, in questo modo affermi che vorresti avermi dimenticata. Si esiste finché qualcuno ci pensa e tu mi avresti ammazzata. – adesso Adele abbassa la voce, rallenta le parole e abbassa lo sguardo - Forse sarebbe stato meglio davvero.. vorrei tornare indietro ma non si può. E’ una banalità eppure tu sembri non saperlo. Magari ci saremmo sposati e avresti scoperto il rimpianto di averlo fatto. E’vero, lo vuoi sapere? Non credo di avere mai amato davvero nessuno, almeno per lungo tempo. Non so se per colpa mia o degli uomini sbagliati che ho incontrato o se è perché non so amare per sempre e basta. Ma tanto la vita non può essere perfetta, non ha senso, se fosse perfetta sarebbe eterna. Invece si muore tutti e comunque. Dunque non ti illudere, non sarebbe stato mai un amore perfetto, assoluto. Tutto l’assoluto di questo mondo se lo porta via la morte con una risata. Magari il nostro amore lo conserviamo per un altro mondo, dove c’è l’eternità, dove c’è l’infinito. Ecco, l’infinito può contenere questo amore senza limite. Come diceva Sant’Agostino? “La misura dell’amore è amare senza misura”. Hai visto, mi hai capita bene, sei contento? Dovresti essere contento di aver finalmente una prospettiva. Ma basta, alziamoci che roviniamo tutto.
- Aspetta, non ti arrabbiare. In effetti anch’io ho pensato che in fondo mi hai fatto del bene. Ma lo sai che quando scrivo una poesia mi basta pensare a te per trovare l’ispirazione? Molti dicono che non si sa cosa sia. In realtà è semplicemente il trovare le parole giuste per esprimere le proprie emozioni. E se ti penso, le parole mi vengono da sole. Soffro, la piaga si riapre ma funziona Solo che ne sarebbe valsa la pena se fossi stato un grande poeta. Forse un giorno le pubblicherò e scoprirò di esserlo. Invece stanno lì, ma mi piace ogni tanto rileggerle. Ma tanto con le poesie non si fanno soldi.
- Carmina non dant panem
- Eh già, ma io non lo farei per i soldi. Pensavo che tu, passando in una libreria ti ci saresti imbattuta per caso… e così via, insomma. Il lettore, a volte è un’astrazione e a volte ha un nome e un cognome e non lo sa nessuno.
- Allora aspetto il tuo libro. Chissà cosa mi potrà succedere.
- Va bene, prendimi in giro. Anche la ma moglie di Ungaretti faceva così, poi lui è diventato famoso e l’ha lasciata per una di vent’anni
- Che aveva sempre creduto in lui?
- No, che di poesia non sapeva un cazzo, un’ignorante totale. Ma è stata una buona scusa per lasciare la moglie per una ragazzina.
- Io invece sono più vecchia di tua moglie.
- Anche io non sono Ungaretti, non sarebbe solo il Nobel a distinguerci.
- Basta! – si alzò in piedi e si guardò in giro per radunare la scolaresca - Ragazzi, forza, abbiamo ancora tanto da vedere.

(continua...)

domenica 19 aprile 2009

Meditazione

“Costanti e perpetue si dilungano lungo la via dei salici le narici impetuose del divenire plebeo senza mostrar vergogna alcuna. Come mai le avete concesse al pubblico senza pensare a nasconderle? Non avrete alcuna remissione dei vostri peccati, così facendo, lo tenete in conto, spero. No, no, non preoccupatevi se non esce respiro dai vostri corpi senza che non lo sappia la santa madre di tutti. E’ cosi’ che ci si rovina la vita senza saperlo. Non è stato mai facile mostrare indulgenza alle voci che sentiamo di dentro. Colpite i vostri cuori con ferocia e ne riavrete sale da cospargere sulle ferite aperte, ma quando quasi tutto sarà compiuto potrete riabbracciare i vostri cari per una quasi ultima volta.”

Seduto a gambe incrociate sul tappeto rosso del suo salotto, il maestro Kandahai lasciava uscire i suoi pensieri così come venivano, le parole impure lasciavano il suo corpo sempre più lentamente, mentre si diradavano. Tra poco sarebbe rimasto il silenzio, nella sua mente. Osservava la luna dipinta da sua sorella, che ora lo pensava da laggiù, ne era certo, senza soffrire della distanza che li separava. “Siamo sempre uno accanto all’altra. E’ il sentimento, non il corpo, a dover essere vicino, e le parole e i gesti non servono, tra di noi. Nel tempo in cui siamo stati vicini ci siamo detti tutto il dovuto e anche un po’ di superfluo, d’ora in poi quello che conta è sapere di avere un silenzio da condividere”.
Il suono del campanello lo ferì fastidiosamente. “Dovrò decidermi a cambiare questa suoneria, sembra una pugnalata. Anzi, dovrei toglierla del tutto.
Si alzò di malavoglia è andò alla porta
Un marocchino. Con tappeti sulle spalle. Maledisse come sempre la sua curiosità.
“Salve, signore, guardi che bei tappeti di Marocco”
“No grazie, io sono indiano e li porto dal mio paese”
“Bene, allora fratello conosci valore di tappeto. Guarda, guarda questo, che colori, centomila nodi centimetro, solo cento euro. Pensa solo se fa operaio italiano, fra tasse sindacato e contribui paghi mille euri”
“Ecco, anche tu ce l’hai coi sindacati. Conosci la storia di Iqbal Masih? Era un indiano, l’hanno ucciso a tredici anni, lottava per liberare i suoi coetanei schiavi del lavoro ai tappeti. Ce l’avete voi. Il sindacato dei tappetari?
“Per carità! Padrone mi ammazza.”
“Ecco, meglio, così non mi suoni più al campanello. Vai, vai, che ho da fare.”
“Cosa devi fare, con piedi scalzi?”
“Ma pensa te, ti fai gli affari miei e mi guardi anche i piedi“.
“Guardo i piedi perché guardo i tappeti”
“Perché… scusa, ripeti un po’, cos’è che fai?”
“Guardo piedi perché guardo tappeti”
“Allora. Calma. Adesso tu mi spieghi perché prima hai pronunciato l’articolo "i" e adesso no?”
“Ma, davvero? Insomma, uffa… E va bene, non sono un marocchino, parlo così perché è più facile vendere. Sono anche laureato in lettere, se proprio lo vuoi sapere.”
“Ma tu guarda. Prendi anche per il culo il prossimo”
“Ma quale presa per il culo. E’ marketing. Perché, il Mulino Bianco, allora? E il bianco di Dash?
“Va bene, va bene. E così si vendono ‘sti tappeti marocchini?”
“Ma che marocco, li facciamo all’Apsella coi cinesi”
“Ah ma allora c’è pure il falso, altro che marketing!”
“Se è per questo sono meglio di quelli persiani, questi. Indistruttibili.”
“Ma pensa un po’. E quanto ti costano a te? Dieci euro al massimo”
“E’ voja. Va ben ch’i pag poc, i cines, mo me costa trenta euro”
“Va bene, ti dò quaranta euro, dammi questo azzurro.”
“Come, lo compri?!”
“E certo, io cerco la verità, quando medito. Non è facile trovarla, ma per cercare è importante averla intorno, anche negli oggetti. Quadri a olio fatti da chi conosci. Artigianato. Ma non importa il valore delle cose, quello che conta è quanta verità contengono. E quando la trovo la voglio tenere con me. Meditare sopra questo tappeto mi farà stare più vicino alla verità. Tieni i tuoi quaranta euro e vai in pace, fratello”
"Grazie. Ma ringraziami anche tu, fratello. La verità a quaranta euro non è molto."

sabato 14 febbraio 2009