domenica 14 giugno 2009

L'ultimo Bramante

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Uscirono dal Teatro che era mezzanotte. La corrente che veniva dalla piazza non li fece rabbrividire: l’inverno stava finendo e non era necessario rifugiarsi sotto il Loggiato. Si stava bene fuori, passando sotto la grande abside del Duomo, vicino al muro delle muffe verdi, scolature di vecchie acque sante, che d’inverno raggelano e a primavera risvegliano.
Paolo era desolato:
- Madonna... - e sbadigliò, reprimendo anche una plateale stirata di braccia che limitò ad uno schiudere d’ali - Fortuna che l’aria ci sveglia!
- Davvero, ‘sti russi son pesanti, anche se non si può dire - fece Luciano.
- Ah no, basta! - replicò Paolo risentito - Cechov è palloso e basta. Non potrò mai crescere abbastanza per farmi piacere Cechov. E’ inutile. Ci rinuncio. E rinuncio anche a spiegare perché non mi piace.
Stette in silenzio per qualche attimo, poi partì dietro a un’idea:
- Ecco, no, anzi... non mi piace perché mi fa dormire, e dormire non mi piace, perciò se preferisco il sonno vuol dire che Cechov è ancora peggio. E non mi dire che siccome ho dormito non posso giudicare... Lo spettatore addormentato è un critico acuto: il suo giudizio si è ormai maturato in una scelta definitiva e inappellabile. Il sonno non è una scelta, ma l’effetto della percezione... E’ la Sindrome di Cechov, più leggera di quella di Stendhal ma più diffusa, quindi a maggior impatto sociale. Da curare all’origine, stando alla larga dalle cause... Russi? No, grazie, sto cercando di smettere.
Ridevano bene assieme, quei due amici, con lo stesso gesto di mettersi la mano davanti alla bocca, come a scusarsi. Un gesto da seminaristi, anche se erano stati assieme solo dalle suore, all’asilo. Forse era lì che gliel’avevano insegnato, al tempo in cui t’insegnano i gesti che poi si crederanno istintivi, quando impari senza ricordare, quando sei una pagina bianca, come un quaderno di scuola appena comprato, che tutti vogliono iniziare in bella calligrafia, poi alla seconda pagina arriva una cancellatura, una macchia d’inchiostro, e poi le orecchie che la prima t’incazzi e la fai stirare a tua madre col ferro, ma anche quel quaderno farà la fine di tutti gli altri, con le macchie e i fogli strappati e che ognuno se lo tenga come gli pare che la responsabilità è la sua, noi alla prima pagina gliel’abbiamo fatto vedere come si fa, gliel’abbiamo dato il modello, se poi l’ha rovinato non è colpa nostra, e tu avrai sempre quella pagina bella, linda, che ti aspetta, e si mostra ogni volta per prima, che anche se la salti lo sai che lei è lì, a rinfacciarti il tuo fallimento. La crudeltà del buon esempio.
- Comunque, - fece Luciano rassicurante. - E’ stata una bella stagione... a parte oggi.
- ...e quella specie di Shakespeare?. - obiettò Paolo. - Scespìr, anzi - e declamò: - o’Sscespìr, chille ca nun chiagneva, ma faciva chiagne nuie?. Poveri autori classici, morti e perciò muti. O ci sarebbero tombe urlanti. Pensiamo a questi fantasmi disgraziati quando applaudiamo gente che meriterebbe la gattata.
- A Firenze l’hanno fischiato, lo sapevi, no?
- Sta’ zitto, mi son sentito un verme, quando l’ho saputo. Anch’io avevo applaudito, cosa credi? E prima di farlo ho anche guardato cosa facevano gli altri, ti rendi conto? Non siamo un bel pubblico, siamo solo dei provinciali col complesso d’inferiorità. Scambiamo ancora quello che non ci piace con quello che non capiamo. Il massimo della contestazione sono applausi timidi. E’normale che non piaccia quel che non si capisce, ma un pubblico maturo capisce quello che non gli piace. E noi non lo siamo. E quelli lo sapevano, sennò non avrebbero comiciato qui la tournée.
-Chisà, io non ho fatto la stessa cosa?
Quell’amarezza li accompagnò, senza più parole, fino alla piazza.
I bar avevano già chiuso.
- Hai sonno? - disse Luciano.
- Valà! Ho già dormito, no? Per me è l’alba. Proprio non ho voglia di andare a letto.
- Allora prendiamo due sedie.
- Eh già...come una volta.
Le tirarono giù dalla pila che stava tra le colonne del portico lungo, e si misero vicini, un pò di sbieco, guardandosi e guardando passare le ultime anime morte al teatro, che attraversavano la piazza come corpi estranei. Dirette non più alle case ma alle macchine parcheggiate fuori le mura, le suole come ostili al selciato, timorose dei luoghi che attraversavano, luoghi dei rimpianti inconfessati, ignoravano quei due reduci come tornando dalla campagna di Russia si schivavano quelli che si erano arresi fermandosi, per non cadere nello stesso destino.
Paolo e Luciano erano amici da sempre. Lo stesso quartiere, la stessa compagnia, anche una ragazza scambiata. Però di donne Paolo ne aveva avute molte di più. Era lui il bello della compagnia, “Bambola”, lo chiamavano. Luciano guardava ogni volta quel suo viso dolce e carnoso con invidia, specialmente quand’erano con le donne, sapendo che era a lui che miravano, e pensando a quante avrebbe potute averne lui, con quella faccia.
- Saranno quindici anni che non stavamo seduti qui, a quest’ora.
- Eh, sì. Facevamo le tre, le quattro, a discorrere... di cosa, poi?
- Ah, davvero, mi sa che non dicevamo niente: non me ne ricordo neanche uno di quei discorsi.
- No, io invece qualcosa mi ricordo. Come quella sera dei mondiali. Era l’ottantadue. C’era Carlin che criticava Bearzot: “la sapria fè io la formasion: Zoff, Gentile, Cabrini, Scirea, Tardelli...” e ripeteva tutta la formazione titolare dell’Italia che aveva giocato la sera prima, pari pari.
- Ecco, questo e’ un urbinate, - Luciano ritornò su quel pensiero - è come dicevo prima, è uno che crede di capire quello che è stato già capito da qualcun’altro, e poi va a trovare conferme che già conosceva. Ma lo fa senza accorgersi. E’ un buon vecchio coglione, l’età non c’entra. Qui si nasce buoni, vecchi e coglioni, circondati da buoni vecchi coglioni che ti insegnano come si sta al mondo. Cosa vuoi pretendere?
- Mah! Che amarezza. Siamo urbinati anche noi, e facciamo proprio così. Abbiamo sempre parlato parecchio. Le donne, a voi le americane a me il Beneluxury, “apri le cosce e impara l’italiano”, i gavettoni, le corse dei motorini, e poi, quando facevamo i seri, c’erano le idee assurde, le utopie, gli idealismi proclamati solo per far ridere o per far colpo sulle bordelle. E adesso, adesso che non abbiamo più la giustificazione dell’età, cosa stiamo facendo? Discorsi inutili, sofismi, equilibrismi verbali, verbosi, o magari anche nobili propositi che domattina non ricorderemo nemmeno, e intanto siamo sull’orlo dell’abisso. E già, siamo sull’orlo dell’abisso, perché siamo proprio noi gli ultimi, quelli che hanno la fortuna di poter contemplare il baratro nero in cui stanno per precipitare. Ti sei accorto che Urbino finisce con noi? Siamo gli ultimi nati all’Ospedale Vecchio.
A questo punto si fermò, soppesando l’effetto di quella rivelazione su Luciano, poi, vedendo l’amico pensieroso, si decise:
- Ho una cosa da leggerti. Piuttosto che dirti le cose che ho già scritto, magari facendo finta di pensarle sul momento, te le leggo direttamente. Qualcosa dobbiamo fare, no? E allora ho pensato almeno di rendere testimonianza... come Plinio il Vecchio con Pompei.
Tirò fuori dalla tasca un paio di foglietti piegati, mentre Luciano lo guardava, sorpreso e incuriosito.
- Pronto?
- Prontopronto. - riuscì a dire Luciano sorridendo alla sorpresa.
E Paolo cominciò a leggere :
- Sono nato all’Ospedale, quello vecchio. L’Ospedale Vecchio. Due parole che non resteranno assieme per molto: “...il Monastero di Santa Chiara ospitò per alcuni anni l’Ospedale della SS.Misericordia”. Come quando il morto aveva un soprannome, che non resterà.
Ogni giorno, parole tra loro sconosciute s’incontrano tra la folla per poi perdersi di vista. Se le lasciamo andare. E se invece le tratteniamo, anche solo per un po’, non le lasciamo più. Comincia un pensiero leggero, come quando mia madre spolverava i mobili, e nel raggio di sole che attraversava la stanza apparivano brevi fili di luce. Era soltanto polvere, lo so, ma mi piaceva guardarla farsi nobile luce e scintillare, prima di scomparire. La gloria di un attimo che passa. Come uno di quei pulviscoli, un pensiero gira e rigira, ne raccoglie altri su di sé, diventa pesante. E chiede di non scomparire.
Don Bramante.
Paolo, Icilio, Alessandro e Bramante sono i miei secondi nomi. Don Bramante ci teneva a restare. Affidò ai libri la sua memoria estesa e ai nomi quella ristretta, come messaggi in bottiglia. Ci battezzò tutti così, Bramante e Bramantina.
Siamo noi, i Bramanti e le Bramantine, gli ultimi ad avere avuto le mura di Urbino intorno al primo sguardo.
Su di noi è caduto il peso di anni che non abbiamo vissuto, ma che sono lo stesso nostri: la storia di cui eravamo eredi ce l’hanno caricata sulle spalle, prima di accompagnarci alla porta. Dietro di noi una lunga marcia, migliaia di anime antiche si sono lasciate per sempre le mura alle spalle. Soglia varcata, confine oltrepassato. Non ci sarà ritorno. Si muore di nuovo e per sempre, stavolta. Anche l’anima può morire. L’anima di una città.
Forse la colpa è di qualcuno. La colpa è certamente di qualcuno. Ma forse sono io che mi sbaglio: non esiste colpa. Un’intera comunità decide di lasciare le case della sua storia, e allora la colpa non esiste. E’ solo che la memoria non conta più, quando non rende. Verrebbe da pensare a cosa fare, cosa dire, se per qualcuno si dovesse fare o dire qualcosa. Invece va bene a tutti. Quasi a tutti. A me non va bene. Forse perché non ci guadagno. E nemmeno questa città, questo mucchio di vecchi mattoni forse urlanti, certamente muti, ci guadagna.
Forse parlo io per lei. Presuntuoso. Ma chissà.
Non pensavamo che sarebbe successo. Non è che non ci credevamo, è che non ci pensavamo proprio. E allora non c’importava nemmeno. I vicoli erano tutto il mondo, tutto il tempo.
Non volevo andarci, all’asilo delle suore. Mi tenevano ad un tavolo, a guardare i giochi chiusi e ordinati dentro a una teca di vetro. Stavo buono, al mio tavolo. Pero’ riuscivo ad essere rimproverato: non sapevo soffiare il naso. Non ho mai voluto imparare. Ancora oggi continuo a non voler saper soffiarlo. Una ribellione postuma. Se imparassi sarebbe come rimettermi seduto a quel tavolo, e fare il bravo bambino. Non voglio fare il bravo bambino. Non così. Il passato non passa, lo viviamo ancora, e i luoghi calpestati li sentiamo ancora sotto i piedi.
Aspettavo che ci portassero in giardino, così potevo vedere mia madre che mi salutava dalla terrazza di casa. Un supplizio. Solo nell’amore di una mamma riesce ad esserci tanta perfidia.
Per convincermi ad andare mi chiudeva dentro l’armadio buio. Ma stavo meglio dentro l’armadio buio che all’asilo delle suore. A volte riusciva a farmi arrivare fino davanti al portone, rivedo suor Elvira che mi accoglie a braccia aperte mentre le dico:
- Ho dimenticato il fazzoletto da naso! - e poi corro a casa per non ritornare. Mentivo, ma almeno facevo sapere che al mio naso pulito ci tenevo.
Tornavo dalla mia mamma e dal mio armadio. Nel mio armadio e nella mia mamma. Anche lei non voleva che andassi, l’ho capito solo adesso. Quel chiudermi lì non era altro che un ripormi nel suo ventre. E per quanto pieno di vestiti, era pieno di vestiti di madre, dell’odore di lei. Avevo anche visto uscire dei topi da quell’armadio, era un armadio a muro che dava sulle cantine. Ma resistevo. Dopo un po’ si cominciava a vedere qualcosa e ci si poteva sedere sulle coperte imbottite. Aveva paura che mi affrancassi da lei. Se ci portavano fuori stava in terrazza. Lei credeva di farlo per vedere me ma era perché io vedessi lei. Per farmi soffrire il rinnovo del distacco e non permettere che la ferita cicatrizzasse. Ma è così, sono così le mamme buone. Non si vuole mai perdere ciò che si ama, e se quello ci ama non lo si perde.
Però a spasso ci andavo con lo zio Gualtiero. Ricordi remoti: lui morì che non avevo ancora quattro anni. Ma ho ancora un fotogramma in mente: lui cammina ingobbito avanti a me, come vedevo fare a tanti vecchi allora, con le mani intrecciate dietro la schiena, ed io faccio lo stesso. Da allora ho sempre camminato un po’ piegato, e mi piace ogni tanto rimettermi le mani a quel modo e ricordarmelo. Andavamo verso l’osteria della Piazza dell’Erba, dov’erano i suoi amici, vecchi come lui. Anche le osterie erano vecchie, e sono morte con loro.
Facevamo il giro di tutte: l’Idea, in via Pozzo Nuovo, Cesare, in via del Leone, Montasò e Cecconi, una di fronte all’altra per Valbona, e chissà quali altre. Ogni tanto mi comprava un “biscottol”, una ciambella di pane secco d’anice, che sprigionava il suo gusto inzuppandolo nel vino. Più che di anice, però, sapeva di fumo, fumo di pipa e di toscano: era infilato da giorni, chissà quanti, su un magnifico tridente di legno appoggiato al bancone. Immagine di gloriose agresti fatiche, consacrate al tempo del riposo. Non c’erano finestre nelle osterie, solo la porta, e d’inverno c’era come una nebbia, dentro. Si trovano anche oggi quei biscotti, chiusi nei loro igienici cellophan, con la data di scadenza, gli ingredienti, i valori nutrizionali, le norme di conservazione. Non sono gli stessi biscotti. In questa storia non ci sono ”madeleines”.
Fu per andare in parrocchia che cominciai ad uscire da solo. La parrocchia di San Bartolo, compresa tra via Battisti e via Budassi, si espandeva fin sulle campagne verso il Sasso. Da Don Dante c’erano il biliardino e il ping pong. Eravamo in tanti a voler giocare, così chi perdeva usciva, oppure si giocava “all’americana”, correndo tutti attorno al tavolo da ping pong per colpire la pallina uno alla volta, e chi la mancava usciva. Quando si rimaneva in tre si correva come pazzi, attorno a quel tavolo, e s’inciampava. Marcello aveva due incisivi notevoli, e quando inciampò gli si piantarono sul tavolo. Quell’impronta involontaria è vissuta più di lui, il suo libero arbitrio lo ha portato via, un triste febbraio di qualche anno dopo.
Quello stesso tavolo, ogni agosto, si copriva di canne e di grandi fogli di carta verde, i colori di Lavagine, per la Festa dell’aquilone.
Eravamo i più forti, i più numerosi, un esercito agguerrito che partiva da una chiesa. Come i crociati, le armi benedette. E come per loro, se eccessi ci furono fu per una giusta causa: si tagliava qualche filo, si calpestava qualche aquilone, si faceva piangere qualche bambino, ma alla fine si vinceva, questo contava. E la sera andavamo a suonare i tamburi in giro per il quartiere dei grandi, odiati rivali, quelli degli aquiloni gialli, quelli di Hong Kong.
Ma la nemesi è venuta, e adesso dobbiamo vivere tutti a Hong Kong. Quel drago, quel mostro ha allungato i suoi tentacoli a dismisura, oltre le colline del nord, e li ha irrorati del sangue delle nostre vite. Ci ha stanati, estirpati, ci ha tolto anche la volontà di resistere, blandendoci con l’innegabile luce che inonda i suoi falansteri. Ci ha corrotti fino a tradire.
Così oggi a San Bartolo non c’è neanche più il parroco. Viene un canonico del Duomo per qualche vecchio, la domenica. Allora, la domenica, se arrivavi un poco in ritardo non riuscivi ad entrare, dalla gente. Dovevi passare da fuori, dalla sagrestia, e salire in cantoria con i più grandi che ti facevano i dispetti. C’era una gerarchia nei posti assegnati: i più piccoli, i catecumeni, assieme alle suore in prima fila. Ai lati dell’altare due panche per i più grandicelli, e infine l’ascensione, il traguardo della cantoria, per i ragazzi. Gli uomini stavano in fondo, vicino all’uscita o anche fuori. Istinto di antiche usanze contadine, dove gli uomini concludevano affari e baratti sul sagrato festivo. Dalla campagna a San Bartolo, e ora di nuovo fuori.
C’è stato il rigetto.
Per secoli la vita è trascorsa immutabile, poi pochi anni e tutto è scomparso. Gran sorte, aver memoria fresca di secoli lontani.
Facevamo i chierichetti incoraggiati dal Tabellone delle presenze. Una messa servita una casella annerita, e alla fine del mese mille, dico mille lire al primo, cinquecento al secondo e centocinquanta al terzo classificato. Verso la fine del mese, allo scatto finale, si andava alle benedizioni, ai vespri, ad ogni funzione possibile, a volte anche in cinque o sei, e la gente rideva. Si rendeva necessaria la divisione dei compiti. Ciò creava abilità ma anche rischi. Capitava di dover fare cose che non si erano mai fatte.
La corda della campana non era al pianterreno, una porta della cantoria si affacciava sul vuoto, all’interno del campanile. Un giorno un improvvisato campanaro venne risucchiato dalla corda dentro la tromba del campanile, e lo riprendemmo al volo un attimo prima che precipitasse.
Un’altra volta, dentro la sagrestia, facemmo a gara a chi riusciva a far fare il giro della morte all’aspersorio pieno di incenso fumante. A Veris, nel momento di massima spinta, scappò dalle mani, colpì il soffitto e i tizzoni d’ incenso si sparsero sul tappeto, sui paramenti dell’altare, e bruciacchiarono un po’ dappertutto. In un attimo riuscimmo a spegnere ogni focolaio e non si seppe più nulla. A me, uno di questi solerti pomeriggi di fine mese, capitò di servire un vespro da solo. Il mio dramma era la campanella, quella che si suona durante la cerimonia eucaristica, il momento più solenne di tutta la messa. Non l’avevo detto al don, volevo essere il migliore, ma non sapevo che fare. Così aspettai che si voltasse verso il ciborio, e in un attimo portai la campana a una signora che stava in prima fila, sicuro che lo sapesse: avevo individuato la più esperta.
- Suoni lei quand’è il momento, la prego! - lei si assunse quell’onere glorioso, e tutto andò liscio.
Sono convinto che il povero Don Dante in quelle occasioni pensasse seriamente di eliminare i premi. Oggi dovrebbe centuplicarli: non ci sono più bambini a San Bartolo, non c’è neanche più il prete. Ci sono i vecchi, i genitori di allora, che hanno visto i loro vecchi morire e i loro figli andarsene, e hanno gli studenti nelle camere che furono dei figli.
Non pensavamo che sarebbe successo, quando a decine inondavamo i vicoli urlando senza sapere il perchè. Volevamo esistere. Si grida appena venuti al mondo, e si continua a gridare per molto, fino ad essere sicuri che si sia notata la nostra presenza. Quando poi vorremmo nasconderci.
Dai vicoli sciamavamo spesso nella campagna appena fuori la porta di Lavagine. Era vicina, allora, la campagna, era parte della città. Appena fuori la porta c’era una grande volta, sotto la via dei Morti, che aveva sotto tre vasche comunicanti. La prima era bianca di sapone, e lì le donne lavavano i panni. La terza era limpidissima, per l’ultimo risciacquo. Questa era tabù per noi, guai a tirarci un sasso o anche solo a metterci le mani: ci scappavano urla e schiaffoni dalle lavandare.
Poco oltre i lavatoi cominciava la strada sterrata che portava al Perlo. Su un lato, in uno spiazzo appartato, il giogo per la ferratura delle bestie. Faceva impressione: ricordava le forche delle storie di Tex Willer. Ma il Perlo era soprattutto il luogo delle capanne: appena sotto la strada, la macchia si faceva ripida e fitta. Lì, a gruppi di due o tre, si puliva uno spiazzo di terra, lo si mimetizzava, ci si nascondeva qualcosa di nostro per renderne importante la difesa, si piazzavano trabocchetti all’ingresso. Poi si partiva per andare a scoprire e distruggere quelle degli altri. Le più belle, però, diventavano patrimonio comune, luogo di riunioni. Ne ricordo una grande e bellissima, rifinita a gradoni e aperta come un balcone sul fondovalle. L’orlo del terrazzo si affacciava su un fosso di rovi, e proprio lì sopra c’era una grossa liana. La prova del coraggio: lanciarsi con la liana oltre il baratro e tornare sulla terrazza. Naturalmente non ci si poteva sottrarre. E naturalmente a qualcuno sarebbe successo, prima o poi. Toccò a Donato. Quando si lanciò io ero lì. Vidi la liana spezzarsi nel momento di massima estensione, quando Donato era nel punto più alto e lontano. Lo vedemmo precipitare e scomparire nel baratro, senza un grido. Impiegammo tutto il pomeriggio per tirarlo fuori: ad ogni movimento le ortiche e i rovi lo ferivano, ma alla fine non si fece quasi nulla.
Ora su tutto questo ci passa la circonvallazione. A volte ci vado a fare una passeggiata, per rivedere dov’erano le nostre capanne, ma non c’è niente da fare, sono proprio sotto alla strada, e chi passa non ne sa nulla. In quanti posti passiamo senza sapere le cose incredibili e grandiose che hanno fatto bambini di cento e mille anni fa? Quali imprese possono aver compiuto quei bambini? Tutto, tutto era grande, anzi, “bestiale”, eppure le piccole immense cose che fanno i bambini nessuno le conosce, nemmeno quegli stessi bambini, una volta cresciuti, le giudicheranno così. E invece furono davvero immense le nostre avventure, perché accaddero in un tempo assoluto. Non c’era il senso della morte a relativizzare ogni gesto, non c‘era la comparazione col resto del mondo e della storia, c’eravamo solo noi e la nostra immortalità. Davvero pensavamo che non ci sarebbe mai capitato nulla, anzi non pensavamo affatto al tempo della vita. Pensavamo al tempo del giorno. Il resto del mondo era solo una messinscena, che ci trovava spettatori disattenti.
E’ rimasto solo il poggio da dove lanciavamo gli aquiloni. Un posto ideale per quello, non ci sono cavi, il vento può venire da tutte le direzioni, ed era bello starci seduto col filo di cotone in mano, con l’aquilone sospeso e stabile al centro del cielo. C’era anche l’ombra dei tre grandi pioppi. Loro ancora sono là, li vedo ogni giorno, ma se li guardo col ricordo sento un dolore. Mi sembra di averli traditi: loro non hanno disertato. Perché io, perché noi non siamo più ai loro piedi coi nostri aquiloni? Se anche loro non ci fossero più lo potrei capire, non ci sarebbe nessuno da andare a trovare. Visitare gli infermi. E gli amici fedeli che abbiamo abbandonato? Mi sento in colpa. Lo so che mi prenderebbero per pazzo. Se mi sedessi là, che cosa ci starei a fare, con decine di macchine che passano ogni minuto, curiose di gente, e i miei anni invisibili che non mi possono giustificare? Vorrei svegliarmi un mattino ed essere solo nel mondo, andare dovunque si voglia essere soli ed esserlo davvero, solo per qualche giorno, giusto il tempo necessario, poi far tornare tutti, ci mancherebbe, magari per scomparire io e lasciar fare agli altri lo stesso.
Andrei a lanciare il mio aquilone, e lascerei che il filo si aggrovigliasse tra i rami, per dire a quei pioppi “tenete, lascio a voi la matassa, ma attenti a dargli il filo quando lo vuole. Io tornerò presto: non ho ancora giocato abbastanza...”
A un passo da quei pioppi, poco più su, c’erano le viti e i ciliegi. Adesso li separa la strada. Tra quelle viti ci andavo con Agnese. Avevamo dodici anni. Quanti attimi dimentichiamo per sempre, anche giorni interi, magari di una settimana fa, e quanti, vecchi di venti o trent’anni, sappiamo che non scorderemo mai. Ricordo la posizione in cui eravamo, sdraiati sull’erba uno di fronte all’altra, e anche il giornalino che leggevo, Billy Bis, quel giorno che con un dito arrivai a toccarle il capezzolo, fingendo di continuare a leggere. Chissà quanto tempo stetti su quella pagina, su quella figura, con quel dito paralizzato. Vedevo Billy che saltava sulla sua Isotta Fraschini, e intanto immaginavo quel capezzolo. Aveva già dei seni ben formati, e io non sapevo che fare. Non ero capace di andare più in là e non volevo perdere quel contatto. Eppure gli anni e le ragazze successive mi dimostrarono che non ero affatto timido. Solo con lei non sapevo andare avanti. Forse non volevo. Non volevo abbandonare il tempo dell’innocenza, non volevo crescere. Del resto neanche oggi lo vorrei. Sono fatto così. Sono un immaturo. Non crescerò mai. Ma perché poi? C’è davvero un’utilità nel crescere, e quale? C’è una convenienza nel crescere, questo sì. La convenienza. Convenire, convenzione, convenzionale, piatto, sciatto, banale, comune, conformista. No, no, non voglio crescere. Voglio piantare un albero e vederlo crescere, quello è diventare grandi. E quell’albero voglio essere io. Io, l’unico che si è poi masturbato legggendo Billy Bis.
Un tralcio di vite, magari vorrei essere. Tra le viti ci si nascondeva bene anche di giorno, ci si andava con le ragazze, e si facevano baciare. Era inebriante come far l’amore davvero, ma allora non lo sapevo, e credevo che l’amore completo sarebbe stato sconvolgente. Per me era come lo sbarco dei marziani. Adesso è come vederli ripartire.
In pochi metri tanti episodi, e momenti tanto diversi, vissuti fuori le mura. Non so se i miei siano ricordi di città o di campagna. Penso che forse mi si preparava il destino degli esuli.

Paolo tacque. Alzò gli occhi e fissò l'amico in silenzio.
A quel punto Luciano pronunciò la frase che aveva pensato più volte durante la lettura, come un pensiero parallelo all’attenzione dell’ascolto, che gli scorreva su un piano diverso e personale:
- L’hai portato apposta per me, o ce l’hai sempre avuto in tasca?
- Ce l’avevo in tasca da un po’, ma aspettavo di leggertela stasera... non voglio che la legga nessun altro.
Poi, dopo una pausa e un respiro:
- Come ti sembra?
- Ah! Dici che non vuoi che la legga nessun altro e poi mi chiedi com’è. Chi ha un solo lettore si interessa della sostanza, non della forma, no?
Paolo stette zitto per un po’, prima di riconoscere la verità:
- Ma dai, lo sai benissimo che la forma è il contenuto, sennò non c’è messaggio. Il grande scrittore e il fallito sono comunque due grafomani. E io voglio sapere da te chi sono dei due. Perciò, se non piace a te lascio subito perdere.
- Madonna, che responsabilità! Non sia mai che privo la letteratura mondiale del nuovo astro nascente! Quindi non lo farò -disse abbassando il tono. - Diciamo che c’è una phoné che avvolge ed affascina, costringendo a darti ragione, la ragione che si tende a dare ai coerenti. Però lo sai cosa si dice delle autobiografie, che quando ci si accorge di non poter passare alla storia si passa alla letteratura. E’ una strada in salita, la tua. Ne riparleremo quando avrai scritto tutto, se avrai altro da dire... Piuttosto, vedo che ti brucia abitare fuori, eh?
- Non mi brucia abitare fuori, mi brucia esserci stato costretto. Non aver potuto scegliere. E poi mi brucia quel ricatto del paesaggio, del sole, che non è altro che una trappola maledetta: molti vanno a star fuori perché dalle finestre di questi casermoni, aggrappati al fianco della collina, lo sguardo si perde dietro al sole, fino all’orizzonte più lontano, e ti fa scordare quello che hai di più vicino. Quando sono andato a vedere il mio appartamento, infatti, mi son detto: “però, finalmente potrò vedere il tramonto, ogni sera, estate e inverno. Ecco, insomma queste case-fuori non sono poi così male.” E così ti fregano. Ti trasferisci, poi passa un po’ di tempo, non tanto, e una mattina vedi che cominciano dei lavori di scavo, un po’ più a valle. Piano piano, inesorabile, una nuova casa ti cresce davanti, proprio fra te e quelle colline, fra te e quel tramonto. Come per un condannato, il tempo del crescere di quel palazzo è il tempo che ti separa dall’esecuzione. Quello sguardo che si perdeva nei progetti lontani... non c’era limite al dilatarsi delle prospettive - la metafora con la vita è evidente, no? - finchè poi, una sera, tutto finisce. Il cemento ti rinserra. Una premorienza programmata, scientifica, già prevista nei piani regolatori, su documenti catastali che non conoscevi ma che esistevano certamente, in qualche luogo dove nessuno ti aveva accompagnato. Per pietà. Per non darti il dolore della verità. E’questa presa per il culo, che non mi sta bene.
Luciano si alzò di scatto, a un tratto insofferente a quel posto e a quell’indolenza, e anche alla china che stava prendendo il discorso, ma negandosi il pretesto di una fuga pensò ad una passeggiata finale che lo riconciliasse con quei mattoni:
- Dove hai la macchina ? - disse.
- Fuori Lavagine - rispose Paolo alzandosi anche lui, lentamente, come trattenuto da un peso invisibile.
- Bene, anch’io. Però, visto che non volevi andare a dormire, facciamo il giro delle mura.
Così tornarono di nuovo a quella strada, indietro per dov’erano venuti. Avanti e indietro, ma due sole volte nella stessa sera, fuori dai portici lungo i quali si facevano cento volte cento vasche in una sera, magari salutando cento volte cento le stesse persone, col saluto che però ogni volta si affievoliva, fino a sfumare nell’allusione di un sopracciglio, e per fortuna a un certo punto si andava a casa, ché se si fosse continuato ancora sarebbe arrivata l’indifferenza, poi l’odio immotivato, i futili motivi, la cagione di una rissa feroce. Motivi futili e profondi, l’odio di trovare nei tuoi simili la tua stessa condanna. Il carcerato che osserva il vestito dell’ergastolano e l’uccide nel vederglielo ben stirato. Perché? Futile motivo. O forse no. Simboli.
Ancora luci accese al teatro. Gente dimessa, lavoranti, il sotto le quinte. Gli venne in mente Dickens. Più leggeva e più ogni cosa reale ricordava a Paolo qualcosa di immaginario, di immaginato da altri. Disse:
- Hai ragione tu, devo ancora capire se scrivo o de-scrivo. L’autobiografia non è letteratura.
- Non è proprio così: lo è se ti limiti ai fatti. Cosa resterebbe della Recherche, se ci si limitasse alla fabula? Non preoccuparti, non pensare a come scrivere, che quello non s’impara, anche se qualche scrittore arrotonda le entrate allestendo improbabili “scuole” speculando sugli illusi. Scrivi per te, non per un pubblico che devi solo immaginarti. Immaginalo come migliaia di te stessi, amico ma non indulgente, ma soprattutto abbi delle idee originali. Se non sai cosa dire, sta’ zitto e basta. Se hai un’idea, buttati e non lasciarla finchè non si esaurisce da sola. Dietro una sola idea sono state costruite fortune. E la qualità non è mai andata a peso... quando l’hai cominciato?
- Quest’inverno. Mi volevo segnare quello che un giorno avrei dimenticato. Poi mi sono accorto che sto molto meglio nel passato che nel presente. Sono un soggetto ansioso, ho paura di ogni situazione, di non controllarla. Invece nel passato so cosa mi sta per accadere, fosse pure una malattia, un’umiliazione, una figuraccia. Lo so. Eppure so anche che per me non c’è nostalgia. Gli ansiosi non hanno nostalgia, se ricordano l’ansia, se di un episodio vissuto conservano solo l’aspetto esteriore, la sua immagine, dimenticando come l’abbiamo vissuto. Un po’ come diceva Pavese: non è bello esser bambini, è bello da vecchi ricordare quando si era bambini. Chissà quali cupi pensieri agitavano la tua mente, in quel giorno al mare che rivedi in un flash-back. La vita degli ansiosi è quella degli ipocondriaci, uno spreco. Ogni momento, bello o brutto che sia, ne minaccia uno peggiore e lo diventa. Ma basta, che i momenti belli sono quelli normali, così inerti da non contenere nessun pericolo attivo. La felicità teme il tempo, l’infelicità che questo si fermi. Solo la normalità non ha nemici, e gioisce dell’assenza del dolore. L’atarassia, consolazione dei mediocri.
- Ah, così questo sarebbe un momento atarassico: grazie - scherzò Luciano. - E va bene...
Adesso camminavano in silenzio.
Il silenzio non era assoluto, come non lo è mai da nessuna parte, nemmeno nel deserto, dove il battito del cuore e l’agitarsi dei polmoni si espandono nello spazio, e dilatano la presenza dell’uomo fino a non si sa dove, per rimandargli un’eco assordante. Quando si resta soli si diventa un simbolo. Si diventa tutti. Se fossi solo nel mondo, non sarei l’intera umanità? Solo la morte è silenzio nel deserto.
Passeggiando con un amico lungo le mura è bello il tacere, ha il sapore dei pensieri malinconici e confortevoli, restano in mente le ultime parole e se ne preparano altre senza fretta, come quando hai in bocca il sapore del caffè e non accetti nient’altro che possa rovinarlo. La voglia di costruire un castello di carte, portarlo sempre più in alto senza toccare ciò che già è stato fatto, la paura di far cadere tutto senza però potersi fermare, vedere dove si può arrivare, poi qualcuno apre la porta al vento, e tutto finisce in un crollo.
Luciano aggiunse una carta:
- Arriva un momento che si fanno i bilanci. Si tira una riga e...
- Basta! - lo interruppe Paolo - per stasera non abbiamo più niente da dirci a questo proposito, e siccome siamo ancora lontani dal parcheggio, cerchiamo di cambiare discorso.
- Ho capito! Quando non sai più cosa dire te, non c’è più niente da sentire.
- Dai giù, non fare il permaloso, che l’ho detto proprio per toglierti dall’imbarazzo. Mancava poco che dicevi “Tout passe, tout lasse, tout casse” e poi eravamo a posto.
- Eh, vuoi che parliamo di fica?
- Sempre un buon argomento!
- Va bene - Luciano vide dov’erano e gli venne un’idea - però solo se è pertinente coi posti dove passiamo, va bene?
- Eh... va bene - Paolo mise in moto i ricordi: - per esempio lì sotto. Guarda... - si affacciò al muro e Luciano fece altrettanto - vedi lì? Puntato contro il muro della volta ho toccato la mia prima fica. La Lupa...
- Ah, ah! La sapevo questa, c’erano passati a centinaia e te non sapevi cosa fare, sei andato avanti a toccarle la fica per un’ora finchè non s’è stufata, giusto?
- Cazzo, avevo tredici anni, mica sapevo fare tutto come te. Io ero di famiglia buona, venivo dalle scuole delle suore, mica dal Pascoli.
- Guarda che io ma la Luppa en ho manca mai avut el coragg’ da tocalla, carin, e se lo vuoi sapere quest’idea del posto m’è venuta guardando il torrione di S.Polo, dove ho conquistato la Joelle con le stelle cadenti. Quella sì che era un’impresa impossibile, atre che la Luppa! Te la ricordi, la Joelle? - alzò la voce. - Ti devi ricordare, tutti si devono ricordare, guai a chi se la scorda, cazzo. Era la mia, e non ne avrò mai più, una così bella. E in qualunque posto sia, di sicuro è sempre troppo lontano da me. O forse mi sta guardando da chissà dove, lei, troppo bella per un solo pianeta, una delle migliaia di forme di vita dell’universo, ma la migliore di tutte, col suo telescopio potentissimo... - poi salutò con la mano il cielo stellato e disse: - Ciao Joelle, ovunque tu sia, sei sempre mia!
- Adesso ho capito perché i marziani non vengono: li spaventi te! - disse Paolo. Ma Luciano continuava a perdersi:
- Eh, già... migliaia di forme di vita, sì, che esistono certamente. Di questo ci convinciamo facilmente. Ma allora esistono anche migliaia di forme di morte, no?
- Forme di morte... la morte è sempre una sola, per tutti;: semplice assenza.
- Allora c’è anche in quei pianeti dove la vita non c’è mai stata. Quindi la vita c’è solo in qualche posto, e ancora non siamo sicuri nemmeno di quello, mentre la morte è sicuramente in molti più posti.
- Non è detto, - disse Paolo: - se nell’universo c’è un equilibrio di ogni cosa e del suo contrario, e molti lo dicono, contrapposti alla morte desolata che ci circonda in questo sistema solare, devono esserci ammassi stellari pieni di vita, dove i pianeti rigurgitano di folla che urla, si accalca, si accoppia e passa da una festa all’altra cavalcando missili a forma di tappo di champagne che fischiano e fischiettano da un pianeta a quello dei vicini e non hanno pace, e nei rari momenti di riflessione si domandano se esistono pianeti disabitati in qualche posto dell’universo, dove rifugiarsi e attendere finalmente una morte che non arriverà. Mah...! Pensa un po’ se la Joelle, se è in uno di ‘sti pianeti goduriosi, si mette a perdere il tempo a guardarti. E poi, se deve guardare a uno, guarda a me.
E così ripresero la strada parlando di donne, e ce n’erano di storie da raccontare lungo lo Spineto, al torrione di S.Chiara, fino alle mura di S.Bartolo. Solo per pochi momenti tornarono ad alzare la testa, quando Luciano notò il passaggio di Giove sullo Zenith, e dopo aver rievocato una conquista dovuta alle stelle cadenti aggiunse:
-Vorrei che ogni sera fosse S.Lorenzo, - disse - e che le stelle a cadere fossero tante di più e tanto più luminose e di tutti i colori, che cadessero tutto l’anno, anche di giorno, che le potessero vedere anche i ciechi, e che i desideri si potessero avverare tutti, anche quelli opposti fra loro. Eppure non sarà mai così. Vedi? Non è il migliore dei mondi possibili. Questo potrebbe farmi pensare che Dio non esiste, e invece non sono sicuro di nulla. Penso anche che forse Dio ha fatto questo mondo imperfetto proprio per lasciarci nel dubbio. In un mondo perfetto non c’è spazio per i dubbi. E allora la Fede, che ha la natura del dubbio, cosa sarebbe?
La domanda avrebbe meritato un contesto più serio, infatti la lasciarono cadere nel vuoto e ripresero a parlare di sesso spinto come se nulla fosse stato. Non c’è niente di più immaginifico delle storie di sesso. Arrivarono alla porta di Lavagine che avevano appena scalfito l’argomento. Si può non finire mai di parlare di donne, ma arrivò comunque il momento di salutarsi.
- E adesso, quanto staremo senza rivederci? - disse Paolo
- Finchè non avrai finito un altro capitolo, no?
- Spero prima... chissà se ci rimetterò le mani.
- Ah, no, voglio vederlo finito, lo sai che non sopporto il tempo perso, perciò a questo punto lo devi continuare e finire, va bene?
- Va bene.
- Promesso?
- Promesso!
- Buonanotte.
- Ciao.
E anche quella sera, arrivato a casa, sebbene fossero le due e un quarto, Paolo stette un po’ a guardar dormire suo figlio, e come ogni sera sentì il suo petto riempirsi di gioia e tristezza, pensando all’amore e alla bellezza, e a tutto quello che non dura. Lo baciò, poi se ne andò a letto. La mattina dopo avrebbe dovuto lavorare, ma continuava a pensare. Non era un pensiero solo, ché quelli prima o poi si stancano e ti lasciano dormire, era un rigirare di sospetti e di progetti che si accavallavano e lottavano per prevalere uno sull’altro, e lui dava retta ora questo ora a quello, senza poterli trattenere. Il risultato era un gran rumore in testa: Luciano voleva che proseguisse, ma diceva di volerlo solo per amicizia o perché gli era piaciuto davvero? E se gli piaceva, cosa lo aveva affascinato, il soggetto, lo stile, il ritmo? Scrivere cambia solo la vita mentale o anche quella pratica?
Alla fine, come ogni sera, prevalse il fatalismo, la disposizione dell’animo che precede ogni sano riposo e concilia col sonno inevitabile.
Il mattino dopo si sentiva diverso. Ricordava una delle risoluzioni prese alla vigilia del sonno: doveva escludere dalla sua vita tutto quello che non contava. Abbandonare tutti gli incarichi inutili, le perdite di tempo, i progetti a corto respiro. Segretario del Circolo Motociclistico: cosa avrebbe mai potuto dargli in cambio di questo, la vita? Nulla, perché lui non offriva nulla.
Così anche quel mattino, come gli accadeva ogni tanto, probabilmente più spesso di quanto non accada di solito a un uomo, gli venne in mente l’ultimo momento della sua vita, e si divertiva a pensare alla frase che aveva già pronta: “avant moi... le déluge!”: la sintesi della sua vita, il disastro che si era trascinato con sé, senza avervi saputo porre rimedio. Un passaggio inutile, un lento trascorrere di tempo sprecato, e solo per questo apparentemente breve.
Perché infatti si pensa a un fatto di dieci anni prima, e subito ci sembra che sia passato solo un giorno? Perché è passato davvero solo un giorno, è sempre stato lo stesso giorno che si è ripetuto tremilaseicentocinquantadue volte, sempre lui. Quali altri fatti si sono frapposti fra noi e quel giorno, se non vuoti episodi, morti pensieri inutili? Il lavoro, la spesa, lavare la macchina, la pratica, la visita, la chiacchiera, il saluto, la cena, la televisione, il sonno, poi il lavoro, la spesa, la benzina alla macchina, la pratica, la visita, la chiacchiera, il saluto, la cena, la televisione, il sonno. Si vive senza pensare che un giorno scopriremo che la vita ci è passata sopra, o sotto, o addosso, o di lato, comunque ci ha superati, noi e le piccole cose inutili a cui tenevamo tanto, e che a quel punto desidereremmo ricominciare tutto daccapo con una nuova e più forte coscienza.
Pentimenti, rimorsi, rimpianti. Sprecare la vita, questo è l’inferno. Provate allora a pensare al viaggio che avete fatto dieci anni fa, e trovate almeno un ricordo preciso per ognuno di quei dieci anni. Solo dieci ricordi. Sembra facile, ma potrebbe non esserlo. E allora, vorrebbe dire che un intero anno l’avete perduto, e a settant’anni non avrete nemmeno messo da parte settanta fatti memorabili. E di quei pochi non riuscireste nemmeno a scrivere, le lacrime agli occhi non vi farebbero vedere.
La paura ci fa vivere come sorci, rintanati nelle nostre deboli sicurezze, ci toglie la forza di metterci in discussione, di tentare la via di un’utopia che pure certamente abbiamo. Paura della miseria, della malattia. Il sollievo di un povero ammalato è che non ha più nulla da temere. E la morte toglie anche gli ultimi timori. Ogni giorno un “vorrei”, ogni giorno frustrato dalle mille aderenze su cui scarichiamo la nostra vigliaccheria, la catena del condannato ce la siamo forgiata da soli, e non si cerchino scuse.
Tutti questi furono i suoi pensieri di un attimo. Non li dispiegò in parole, ma non ce ne fu bisogno. Ormai erano i suoi compagni di viaggio, e non se ne sarebbe più separato.


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1 commento:

Anonimo ha detto...

Questo, Tiziano, è a mio avviso uno dei tuoi racconti più belli. E' a forma di parabola: inizia dimesso con i due amici che piano piano superano la noia della serata a teatro, poi s'innalza poetico nella lettura dei ricordi d'infanzia (qui mi hai commosso e divertito, ancora come Proust, e l'episodio dei chierichetti "a punti" è strepitoso), poi cerca ancora per un po' di trattenere la magia dei ricordi, ma c'è già lo schermo dello scherzo (nelle parole lungo le mura), infine i ricordi si "appianano" in riflessione nelle ultime parole del protagonista.

Forma e contenuto, la forma è contenuto. La parabola della forma è parabola della vita, dall'infanzia magica alla maturità che diventa riflessione.

E poi, qui parla Elena e non la "critica": riconosco persone e fatti di cui già ho letto in altri tuoi scritti. Fra non molto mi sembrerà di conoscerti da una vita!

Elena